È una costante, per chi frequenta abitualmente i social network: nel mese di giugno, ogni anno, le bacheche e i loghi delle principali multinazionali – soprattutto anglosassoni (ma più di recente il fenomeno si è allargato anche a società di minori dimensioni, anche operanti esclusivamente nel proprio mercato nazionale) – si colorano d’arcobaleno. È il ‘pride month’, il mese dell’orgoglio omosessuale, che è stato riconosciuto ufficialmente dall’allora presidente degli Stati Uniti d’America Bill Clinton nel 1999. Durante questo mese le manifestazioni pro-Lgbt si moltiplicano, così come i concerti, le parate, le trasmissioni televisive. Non poteva mancare all’appello, quindi, il mondo degli affari. Certa letteratura spregiativamente definita ‘complottista’ vede in questo comportamento una prova della propaganda a favore della fluidità di genere da parte dei cosiddetti ‘poteri forti’, di cui soprattutto le mega-aziende sarebbero una delle colonne portanti, oltre che, in questo caso, il megafono. Certamente c’è del vero: che la cultura del radicalismo liberal-progressista sia parte del bagaglio ideologico delle élite occidentali, che permea ogni frutto del loro operato, e che il tasso di ideologia assorbito dal sistema economico dell’Ovest del mondo sia probabilmente senza precedenti è tanto palese da risultare difficilmente confutabile.
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Fuoco di paglia
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