Partiamo dal tuo ultimo libro (Gli intellettuali di destra e l’organizzazione della cultura, Oligo 2023) e dalla domanda centrale che ti poni nel saggio: esiste una cultura ‘di destra’ e, se sì, è più corretto parlare di una cultura ‘delle destre’?
Nel mio ultimo libro porto avanti una tesi che nasce dalla considerazione che, in realtà, esiste ed è esistita una cultura di destra o, perlomeno, una cultura delle destre, perché in realtà non esiste una singola destra ma esistono tante destre con diverse posizioni, con diverse sfaccettature. Prezzolini parlava di ‘mille destre’ e questa cultura di destra è caratterizzata da una serie di autori, di pensatori, di figure, di case editrici, di riviste, di iniziative e realtà che sono spesso di grande valore, per cui lo stereotipo secondo cui «non esiste una cultura di destra, non esiste una cultura delle destre» è in realtà un qualcosa di non vero. Quello che però è mancato negli ultimi anni, e che in realtà è mancato in parte nel corso del ‘900, alla destra è una politica culturale e un’organizzazione della cultura, ciò che alla sinistra, in particolare dal 68’ in avanti, è riuscita benissimo, riuscendo a mettere in campo una politica culturale, sotto vari punti di vista, capace di portare risultati più importanti. Ciò significa che oggi diventa fondamentale per la destra e per le destre organizzare una strategia culturale che sia basata senza dubbio su un’attività di spoil system ma, al tempo stesso, sulla necessità di portare avanti dei lavori che caratterizzano il mondo delle destre.
Da sinistra si è recentemente ironizzato – quando non proprio gridato all’appropriazione indebita – se da destra si è affermata la necessità di rispondere all’egemonia culturale, evocando la nota teoria di Antonio Gramsci… Ma, in tal senso, si tratterebbe di costruire una “contro egemonia” o di operare in un ambito più ampio e metapolitico, a tuo avviso?
Non credo sia necessario costruire una controegemonia o realizzare un’egemonia di segno opposto rispetto a quella attuale. Perché il concetto di egemonia in ambito culturale è un concetto di per sé fallace, nel senso che la cultura per definizione non dovrebbe essere egemonica. La cultura dovrebbe essere dialogo, dovrebbe essere confronto, dovrebbe essere anche scontro, chiaramente di carattere dialettico, ma la cultura non può e non deve essere mai pensiero unico. Ora, che cosa è accaduto, invece, negli ultimi anni? È accaduto che si è passati da una forma di egemonia culturale – che era quella teorizzata da Gramsci nei suoi Quaderni e appartenente al patrimonio della sinistra tradizionale – a una nuova forma di questa. Oggi si è passati a una versione ispirata al politicamente corretto, quella a ricasco della cosiddetta cancel culture, cioè una egemonia culturale che tende a omologare posizioni, a omologare il pensiero, e quindi a opprimere la libertà di parola e di espressione, che invece dovrebbero essere alla base della cultura. Per cui oggi la sfida non è, per l’appunto, una nuova egemonia, ma dovrebbe essere quella di garantire il pluralismo e che pensatori, voci e anime o correnti di pensiero che non appartengono a quel mondo che oggi è prevalente possano trovare il proprio spazio e il proprio riconoscimento.

Si tratta solo di una provocazione o c’è la reale e concreta possibilità di costruire, in modo organico, una ‘politica culturale’, cioè una versione non-marxista del presidio della cultura nel nostro Paese?
Lo spazio per costruire una politica culturale alternativa a quella della sinistra c’è. Bisogna capire se c’è anche la volontà e la consapevolezza per farlo. In questa fase storica, credo sia importante che, oltre a far leva sulle logiche dello spoil system, si faccia in modo che figure culturalmente a noi affini possano ottenere il giusto riconoscimento in ruoli chiave dell’ambito culturale. Però questo non è sufficiente se non viene accompagnato da un forte lavoro sul tema del cosiddetto ‘immaginario’, cioè un lavoro convinto ed efficace su personaggi, figure e valori che devono essere poi raccontati, proiettati all’esterno e nel dibattito. Fare cioè in modo che quella visione della società che è portata avanti, per intenderci, talvolta da delle grandi piattaforme transnazionali, che è portata avanti talvolta da determinati media – i quali raccontano di una società basata su valori che sono evidentemente degli anti-valori, lontani da una sensibilità più conservatrice – abbiano delle alternative credibili. Bisogna lavorare per creare un immaginario diverso da quello che diffonde, ad esempio, la cultura del politicamente corretto. Creare un’alternativa che sui vari temi del dibattito – penso al tema del gender, penso a un ambientalismo troppo ideologico, penso a un multiculturalismo spinto – possa esprimere una voce dissonante a tutti quei mezzi di comunicazione di massa e piattaforme varie che diffondono una certa idea di società a milioni di persone […]
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