Nell’ormai lontano Maggio 2018, durante un confronto nel cuore del Parlamento Europeo, nell’aula chiamata Emiciclo nell’edificio Paul-Henri Spaak situato a Ixelles (uno dei tanti comuni che formano la confusa area urbana di Bruxelles), in uno dei suoi stravaganti interventi, Nigel Farage affermò senza troppi problemi e con un’invidiabile schiettezza che “il Belgio non è una nazione; è una creazione artificiale” sottolineando la sua più totale frattura nazionale, identitaria e probabilmente politica. Non contento ha inoltre sottolineato di come non si sia meravigliato del fatto che il Belgio volesse ”proiettarsi verso un maggiore livello Europeo” (date le lacune relative ad una concreta unità nazionale); senza aver prima sottolineato l’astio che lega i due ceppi linguistici e regionali dei Valloni e i Fiamminghi. Per quanto Nigel Farage non sia un intellettuale e né tantomeno uno storico, e per quanto spudoratamente taglienti siano queste parole, le affermazioni del politico britannico non sono per nulla campate in aria.
Delle affermazioni così inaccettabili dall’establishment progressista in primis ed europeista successivamente, trovano sempre più fondamento nella caotica crescita che la capitale belga e parzialmente il suo Paese hanno subito negli ultimi 40 anni, facendo mutare a sua immagine e somiglianza (negli ancora più recenti decenni) l’intera Unione Europea. I fatti relativi a Bruxelles di qualche giorno fa che sono costati la vita a due innocenti turisti svedesi, confermano il gigantesco e ignorato problema relativo alla sopravvalutatissima “società aperta” che ha modellato le capitali del blocco occidentale secondo i futili e degradanti pseudo valori delle società neoliberali che influenzano i popoli dell’Unione Europea. Il Belgio e la sua capitale nello specifico non sono nuovi ad attacchi terroristici di matrice islamica: l’ISIS sferrò un potentissimo attacco a Bruxelles (in località diverse e contemporaneamente) il 22 Marzo 2016 uccidendo e ferendo civili del tutto innocenti. Nel novembre 2022 a Schaerbeek (altro comune parte dell’agglomerato urbano) in un parco nei pressi di Gare du Nord (altra zona con una pessima nomea riguardo il crimine) due agenti della polizia sono stati accoltellati al grido di “Allah Akbar”; uno dei due è sopravvissuto mentre l’altro è morto sul colpo. Lo stesso attuale ministro del Lavoro Bernard Clerfayt, precedentemente sindaco di Schaerbeek ha dichiarato che il terrorista autore del dell’attentato di qualche giorno fa, Abdesalem Lassoued, viveva a Schaerbeek ma la sua presenza non fu mai notificata all’ufficio della polizia locale.
Ma prima di arrivare a conclusioni di natura politologica e prima di essere fin troppo facilmente accusati di intolleranza da chi potrebbe leggere queste righe, è necessario fare un’ analisi di natura sociale, ideologica, politica, organizzative e storica del Belgio, la sua Capitale e dell’Unione Europea. In poche parole dobbiamo comprendere come siamo arrivati a questo punto in cui Bruxelles e la sua influenza sull’occidente europeo appaiono agli occhi di abitanti, visitatori e opinione pubblica.

Bruxelles, a partire da metà Ottocento, ha sempre subito o (sviluppato) una considerevole divisione di individui che coabitavano la città provenendo da diverse nazioni: italiani, spagnoli, tedeschi, francesi e russi già brulicavano in quelle strade del centro fatte di ciottoli dove la rampante borghesia liberale e mercantile tentava invano di inglobare cittadinanze diverse nel proprio progetto politico nazionale. Personalità del calibro di Friedrich Engels, Alexandre Dumas padre, Pierre Jospeh Proudhon, Victor Hugo e Lenin vissero a Bruxelles per un periodo delle loro vite; come lo stesso Baudelaire fece nel 1864 scrivendo parole non lusinghiere sulla città con il suo Pamphlet “Pauvre Belgique” evidenziando morali, costumi, eccessi e aspetti che rendevano Bruxelles una città già poco digeribile al tempo dell’opera. Il progetto Europeo, dopo l’insediamento della NATO nel 1949 in città ,ha poi portato lo smembramento identitario e culturale della città ad un nuovo livello; così facendo migliaia di tecnocrati e affaristi aumentavano con il flusso di individui man mano che la CEE e infine l’UE incrementavano i numeri di Stati membri e con essi i suoi rappresentanti. Che si trattasse di burocrati e politici nelle neonate istituzioni europee o manager di nascenti multinazionali che delocalizzavano per stabilire sfere di influenze economiche nella capitale de facto del continente europeo, Bruxelles e in parte la società belga inglobavano individui senza mai realmente cercare un processo di integrazione nazionale, che nella realtà dei fatti, sembrava completamente assente. Come poteva, d’altronde, esistere un processo di integrazione culturale e patriottica nazionale in un Paese che presentava già di sé una poca volontà di creare una unità popolare sotto una guida statale? Non parliamo necessariamente sotto un’ottica etnica (che risulterebbe fin troppo riduttiva) ma maggiormente sotto un “comune sentire” che unisca realmente e fedelmente individui con storie passate comuni o differenti. Non dimentichiamoci, in aggiunta, che in fin dei conti il Belgio è e rimane uno Stato federale monarchico dove ogni provincia o stato conducono una vita linguistica e politica non per forza in linea con il resto del Paese. Inoltre, un altro ceppo linguistico e culturale ufficialmente riconosciuto (ma ridotto nei numeri) risulta essere quello germanofono, il terzo fondante e rappresentato dalla società belga.
Avvicinandoci ai tempi recenti, nell’Europa forgiata forzatamente dal trattato di Maastricht, la decolonizzazione e le grandi migrazioni, Bruxelles risulta così da qualche decennio una meta ambita da popolazioni sia parte dell’Unione stessa e sia provenienti da Paesi meno sviluppati prevalentemente dell’area del terzo mondo e in particolare francofoni. Schaerbeek, Molenbeek, Ixelles hanno considerevoli comunità di diverse nazionalità, con una massiccia percentuale di individui provenienti dal Maghreb e l’Africa Subsahariana. Se la loro vita sembra facilitata dalla conoscenza del francese e la volontà di riscatto in cerca di una vita migliore, il concepimento verso l’integrazione risulta essere meno efficace o addirittura una inaccettabile forzatura. Se da una parte c’è sicuramente una porzione di queste comunità completamente estranea a qualsiasi attività criminale e determinata nell’ottenere una rispettabile vita, dall’altra sarebbe da sciocchi non evidenziare una parte di queste popolazioni completamente ostili alle civiltà occidentali con le loro strutture sociali e politiche. Come non è giusto fare di tutta l’erba un fascio, non è altrettanto corretto ignorare arbitrariamente chi semina terrore e criminalità secondo credi e convinzioni internazionalmente ritenuti distruttivi. Che siano rimasugli storici di oppressioni coloniali degli ultimi due secoli o crociate religiose che hanno trovato nuova linfa con la nascita dello Stato Islamico, è innegabile che ci sia una parte di popolazioni non integrata che non vogliono aver nulla a che fare con il già fragile o ambiguo processo di integrazione sociale di molte capitali europee, tra le quali Bruxelles primeggia, ma viene tristemente seguita da altre metropoli come Parigi e Londra. Che tristemente siano sparatorie in centro o risultati di partite calcistiche come nel Novembre 2022 tra Belgio e Marocco, il seguente è un problema lampante verso il quale quasi tutte le istituzioni europee e nazionali hanno “fatto orecchie da mercante” al di là che si trattasse di forze di destra e sinistra; le prime hanno urlato invano evidenziando il problema solo per ottenere voti elettorali e notorietà mentre le seconde, impregnate di tolleranza sciocca e positivismo spiccio, hanno incrementato il fenomeno imponendo arrogantemente progressismo becero, globalismo rampante e una fantomatica e presuntuosa società aperta. Mentre del sangue scorreva, l’opinione pubblica si è armata di gessetti marciando a tempo di fiaccolate.
Se non possiamo concludere nominando un singolo colpevole materiale (per via della pochezza argomentativa che ne scaturirebbe) possiamo sicuramente tirare in ballo il ruolo del pensiero neoliberale e tutto ciò che esso trasporta con sé. Bruxelles è certamente stata da sempre una capitale mercantile, capitalista, liberale e individualista con rare eccezioni. Mozzando le mani al ruolo dello Stato sin dai suoi primi vagiti, il liberalismo ha imposto un modello sociale contrario alla società stessa mettendo in priorità assoluta l’individuo e non la comunità, il guadagno e non gli ideali, il privato e non il pubblico, il commercio e non lo Stato, l’economia e non la politica. L’Unione Europea, rispecchiando a pieno questi principi, ha reso prima Bruxelles (sua sede fisica) e poi le capitali europee, la cassa di risonanza di questo modello politico e sociale. Seguendo questa logica, è comprensibile che non ci sia un attore dedito all’integrazione che possa creare un reale, vero e spirituale “comune sentire” non materialista che unisca popoli differenti in uno Stato comune che tuteli e assicuri il benessere delle comunità e dei loro componenti. Il Belgio è simbolico in tutto questo perché sin dalle sue fondamenta non aveva uno stato presente: il commercio ha unito individui che in duecento anni si sentono ancora divisi. Che si parli di un vile attentatore, uno studente straniero o un lavoratore in espatrio la sostanza non cambia. Non sappiamo se Nigel Farage avesse totalmente ragione, ma comprendiamo che non c’è un modello di integrazione se non c’è una presente cultura statale. In questa dinamica non sappiamo se le istituzioni internazionali hanno influenzato il Belgio o viceversa; sappiamo solo che queste sono le conseguenze di scelte fatte decenni o secoli fa; e spesso a pagarne il prezzo non sono gli autori di queste scelte.
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