Giacinto Auriti: Il GIURISTA DELLA MONETA POPOLARE

da Luigi Copertino

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di un grande giurista, Giacinto Auriti, nato in quel di Guardiagrele (Chieti) il 10 ottobre 1923. Auriti, scomparso nel 2006, è noto per aver teorizzato, ispirandosi ad Ezra Pound e alla Dottrina Sociale Cattolica, la «proprietà popolare della moneta». Secondo questa teoria, la moneta moderna ha potere d’acquisto in quanto incorpora, nel simbolo cartaceo, il ‘valore indotto’ ossia la fiducia del popolo che l’accetta come mezzo di pagamento. Pertanto la moneta non è di proprietà della Banca Centrale emittente giacché il suo valore è creato dal popolo che ne resta il solo e legittimo proprietario. La fiducia, base del valore della moneta, è un bene immateriale ed è quindi un sostituto dell’oro, bene materiale, che un tempo era il materiale di conio delle monete e, in una fase storica più recente, il sottostante reale del simbolo cartaceo: d’altra parte, quando apparve sulla scena storica, la carta-moneta aveva forma giuridica della promessa di pagamento, della cambiale convertibile in oro.

In particolare, la teoria di Auriti è sì una concezione patrimoniale della moneta, ma afferma che il bene sottostante del simbolo non è più materiale ma immateriale. La concezione patrimoniale spiega perché egli ha potuto parlare di «proprietà popolare della moneta»: in quanto proprietà del popolo, che gli conferisce valore fiduciario, la moneta deve essere accreditata alla nazione, da parte della Banca Centrale emittente, e non addebitata come accade attualmente. Dunque, il merito di Auriti non sta solo nella logica giuridica sottesa alla sua teoria, quanto piuttosto nell’aver ben inquadrato la moneta fiduciaria, la ‘moneta fiat’, nella fattispecie giuridica della proprietà anziché in quella del rapporto creditizio. La natura proprietaria della moneta moderna è carattere coevo alla sua apparizione storica ma è diventato evidente solo nel 1971 allorché, con la fine del ‘gold exchange standard’ sancito a Bretton Woods (1944), è venuto meno il sottostante aureo.

Auriti, che era giurista e non storico, ha cercato di spiegare il valore fiduciario della moneta attraverso lo strumento contrattuale della convenzione tacita tra i cittadini: ciascuno di essi accetta, come moneta, il simbolo cartaceo nella convinzione che tutti gli altri facciano lo stesso. Qui, tuttavia, necessitano considerazione storiche integrative della teoria auritiana: infatti, la domanda che inevitabilmente si pone, alla quale è necessario rispondere con buoni argomenti storici, è la seguente: perché mai devo fidarmi del prossimo? Chi mi garantisce che il prossimo stia ai patti e si comporti, nell’accettare i simboli monetari, come me? In altri termini chi è il Garante Ultimo della «previsione del comportamento altrui come condizione del proprio» ossia della «fonte del valore convenzionale monetario»? Ciò che Auriti, a giudizio dello scrivente, trascurò è il fatto che la fiducia alla base della moneta non ha solo dimensione orizzontale ma anche, e soprattutto, verticale, ossia statuale: le origini storiche della monetazione sono sacrali; la moneta si è affermata nelle comunità arcaiche prima come oggetto cultuale e solo molto più tardi anche come mezzo di scambio.

Nelle civiltà antiche, organizzate sulla base della gerarchia tripartita, la moneta, in quanto oggetto divinatorio, rientrava nella sfera sacerdotale del Sacro e di conseguenza in quella regale del Politico. Era consacrata ritualmente dall’Autorità Sacerdotale – il tempio funzionava come zecca – e affidata al governo dell’Autorità Regale per garantirne la pubblica fede. Si pensi alle periodiche riconiazioni per conservare nelle monete la quantità di oro prestabilita. L’Autorità religioso-politica conservò questo ruolo di consacrazione e garanzia della moneta, che induceva fiducia nei sudditi, anche quando intervenne l’innovazione della carta-moneta a copertura aurea […]

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