La visione politico-economica dell’Unione Europea e le misure attuate dai governi degli Stati membri ruotano tutte intorno al concetto del debito pubblico e dell’austerity. La campagna mediatica per il pareggio di bilancio e la lotta al debito pubblico, che durante il periodo pandemico hanno subito solo una parziale e temporanea pausa, sono stata così insistenti e pervasive nel corso degli anni da essere completamente interiorizzate dall’opinione pubblica.
Attraverso una sapiente opera manipolatoria, la questione del debito è stata ricondotta a una categoria etico-morale, da cui deriva che le politiche di austerità rappresentano l’unica strada percorribile, nonché la pena necessaria e inevitabile per espiare i peccati commessi. Facendo leva su sentimenti innati nell’uomo, quali il senso di colpa e di peccato, teorie economiche prive di fondamento scientifico sono state riconosciute come assiomatiche e perciò inconfutabili. Tagli alla spesa pubblica, inasprimento fiscale e ricorso massiccio alle privatizzazioni e alle (s)vendite di asset pubblici nazionali a investitori privati e/o stranieri sono le ricette che i globocrati di Bruxelles, aderendo al paradigma assiomatico neoliberista, hanno prescritto agli indegni scialacquatori, i cosiddetti Piigs.
Per inquadrare il tema nelle sue varie implicazioni occorre innanzitutto chiarire il concetto di debito pubblico, troppo spesso confuso con quello di deficit. Mentre quest’ultimo non è altro che la differenza tra ciò che lo Stato incassa e quello che spende, per debito pubblico si intende la somma dei titoli finanziari emessi dallo Stato per coprire il fabbisogno monetario di cassa statale, equivalente all’insieme dei deficit accumulati nel tempo. Il perverso meccanismo degli interessi fa sì che questo continui ad aumentare anche in assenza di deficit.

Come avviene in tutti gli ambiti economici, al debito di un soggetto corrisponde il credito di uno o più altri: a quello dello Stato corrisponde il reddito dei cittadini. Se sovrapponiamo la curva del debito pubblico con quella del bilancio privato, ci accorgiamo che sono pressoché speculari. A conferma della bontà del ragionamento, basti osservare come le economie dei Paesi più indebitati oggi siano in linea generale anche quelle più ricche: Usa e Giappone detengono il primato delle economie più indebitate a livello governativo, mentre le economie più povere sono spesso quelle che vantano bilanci pubblici “virtuosi”, come emerge dai bassissimi valori dei debiti dei Paesi africani, che raramente superano il 30% rispetto al PIL, e dal podio occupato dall’Afghanistan come Stato meno indebitato al mondo.
Per giustificare le dure e nefaste politiche di austerity la teoria economica predominante sostiene che il debito pubblico rappresenta una condizione negativa per la crescita e che, sebbene situazioni gravi di shock siano molto rare, è opportuno che gli Stati abbiano il giusto tempo per rimettere il debito nel caso in cui esse si presentino. Eppure la letteratura economica non riscontra alcun nesso evidente tra le politiche di riduzione del debito e la diminuzione del livello di rischio di una crisi.
Nel 2010, due docenti della prestigiosa Università di Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, proprio agli albori della crisi ellenica, offrono la base scientifica di cui i globocrati di Bruxelles hanno bisogno per convalidare le proprie politiche: nella loro pubblicazione “Growth in a Time of Debt”, forniscono la prova “scientifica” che se il debito pubblico di una nazione raggiunge la soglia del 90% del PIL diventa un ostacolo insuperabile alla crescita.
Il paper diventa la Bibbia dei paladini dell’austerity, dalla Merkel ai commissari dell’UE, fino al partito repubblicano d’Oltreoceano.
Nel 2013 dei docenti dell’università di Amherst (USA) affidano a uno studente il compito di scegliere una ricerca e replicarne il risultato: la scelta del giovane Herndon ricade proprio sull’osannato paper di Reinhart e Rogoff. L’esito della sua analisi è sorprendente, lo studio è compromesso da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio Excel, alcuni calcoli sono sbagliati e viene omesso di includere tra le nazioni esaminate tre casi rilevanti. Gli stessi economisti di Harvard sono costretti a riconoscere l’errore, sebbene cerchino di sminuirne la portata […]
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