La Francia sta vedendo realizzarsi i suoi incubi peggiori, quelli che autori come Michel Houellebecq (autore di Sottomissione, 2015) e Laurent Obertone (Guerriglia, 2017) hanno messo per iscritto nella forma letteraria del romanzo distopico. Si sa: gli intellettuali europei faticano ad abbandonare l’orizzonte eternamente crepuscolare del nichilismo (dove scarsi e pallidi astri segnano le consuete rotte) e, nondimeno, proprio per questa loro condizione, distinguono con inusuale nitidezza i segni sfocati della senescenza di un’epoca, di un popolo, di una cultura. La décadence si annunzia con i toni sussurrati della poesia, per esalare, poi, nell’inedia di una (sub)umanità incapace finanche di concepire se stessa. Tra questi due momenti di culmine, una gradualità di manifestazioni si staglia in quel medesimo opaco orizzonte, andando dalla Sottomissione fino alla Guerriglia, cioè dall’immobilismo della rinuncia alla paralisi di chi assiste inebetito allo stupro della sua nazione.
Nei romanzi francesi, la sorte di un popolo si inscrive nel circolo vizioso di un’incessante abdicazione, che porta, dapprima, alla sottomissione a un’altra religione della trascendenza – l’islam –, allo scopo di impedire la vittoria dell’anima conservatrice dell’elettorato e, in seguito, allo scatenamento delle forze più violente e distruttive covate nelle generazioni degli immigrati.

Da 1984 di George Orwell, in poi, la narrativa ha assunto una funzione di critica politica e sociale attraverso la tecnica della proiezione nel futuro. Gli autori che hanno adottato questo genere, se ne sono serviti soprattutto per rappresentare le conseguenze delle scelte compiute nel presente, denunciando, di queste ultime, la natura intimamente corruttiva. Sono i tempi presenti, del resto, che interessano davvero, non ciò che sarà quando né l’autore né i lettori suoi contemporanei calpesteranno ancora la Terra. Esaminare il frutto delle scelte attuali – compresa quella di non scegliere, che irretisce specialmente gli intelletti più frastornati – è un modo veramente efficace per suscitare nei lettori il senso di un’autentica responsabilità, capace di infondere la forza necessaria a districarsi dagli inganni del sentimentalismo, con cui si è saturata la coscienza dell’uomo moderno. Houellebecq e Obertone non hanno attinto gli scenari delle loro storie solo dalla propria facoltà immaginativa o da uno sguardo particolarmente acuto sui loro tempi. Già nel 1973 un altro scrittore francese, Jean Raspail, pubblicò una delle opere più indigeste della letteratura europea contemporanea, Il Campo dei santi, nella quale si profetizzava il cedimento politico e culturale della Francia di fronte all’invasione di un milione di paria indiani. Senza dubbio, quello di Raspail va considerato come il romanzo-padre rispetto a quelli indicati in apertura, non solo per la sua precedenza cronologica, ma principalmente in virtù della accuratezza dello sfondo che l’autore riesce a dipingere. Ancora più della cronaca del tracollo francese, colpisce il resoconto dello stato di prostrazione in cui si trova la cultura occidentale. La debolezza congenita, l’inettitudine dilagante, la fragilità emotiva di un popolo ridotto a un detrito morale: così appare l’élite politica e intellettuale d’oltralpe. È, in effetti, la condizione di un intero continente, divenuto oramai incapace di atti eroici – e spietati –, i soli che avrebbero potuto dare ai francesi, e agli europei, la forza necessaria a sopravvivere davanti alla deliberata invasione del proprio territorio. Nel Campo dei santi, a differenza di Guerriglia, non si indugia sulla efferatezza della sovversione […]
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