Abitare vuol dire ritrovare in uno spazio chiuso e definito la propria dimensione privata, determinata da fattori sociali e culturali che racchiudono valori identitari ed aspetti comportamentali. Una definizione che oggi appare poco aderente alla realtà, se non addirittura superata, alla luce di una trasformazione radicale e progressiva della società nel suo complesso. Gli effetti di questa trasformazione sono evidenti e facilmente riscontrabili. La casa ha contratto gli spazi con una limitazione delle sue funzioni, riducendo i tempi dell’abitare all’essenziale e configurandosi così come un semplice servizio. Tutto è stato ridimensionato in stretta relazione con un uso esclusivamente funzionale degli spazi, corrispondente ad un modello sociale che si ritiene prevalente, quello che si manifesta indistinto e frazionato e non incline, forse non disposto, a vivere in una comunità. La famiglia, quando esiste, regge a fatica. I ruoli all’interno della famiglia sono mutati o non sono più riconosciuti in quanto tali. La casa non è più luogo di attività e di relazioni un tempo coltivate con cura e dedizione: leggere, riflettere, osservare, dialogare senza finalità utilitarie immediate.
Le origini del modello borghese
Il modello è borghese nelle sue varie declinazioni ed ha origini storicamente determinate. Dopo la Rivoluzione Francese i nuovi borghesi – nuovi in quanto provenienti da una nobiltà estinta per propria incapacità o indegnità – si impossessarono dei beni monarchici ed ecclesiastici. Non solo, cercarono di riprendere i costumi e le abitudini di un tempo con dovizia di orpelli e ricchezze. Si affermò un lusso spesso smodato, fatto di apparenze e di nuove ritualità. Tutto proseguì negli anni successivi in Francia e nel resto d’Europa sino ad arrivare alla Rivoluzione industriale, che determinò cambiamenti talora radicali nei modelli sociali. La casa come simbolo di censo, ricchezze, successo passa nelle mani di nuovi borghesi, cresciuti sulle ceneri del passato, ma sempre saldamente al potere
La crisi del modello sociale borghese, non più autonomo e contaminato da imprevedibili cambiamenti nel tempo, ha portato ad una separazione ancor più netta e accentuata fra ricchi e poveri. I ricchi prigionieri, per così dire, nelle loro proprietà esclusive, i nuovi poveri, riconducibili sinteticamente a sudditi con sussistenza derivante solo da reddito da lavoro, relegati in abitazioni minime e insufficienti, con caratteristiche di pura funzionalità e sostanzialmente superate.

La casa si riduce ad una cellula
Il sistema cercò di ricomporre, almeno in parte, queste diversità e queste contraddizioni. Le Corbusier, il grande architetto svizzero, pensò all’Unitè d’habitation come un modello di una nuova architettura residenziale. Un progetto che teneva conto dei mutamenti sociali e degli stili di vita, come un fatto stabile ed acquisito. Creò una cellula abitativa che anticipava il concetto di “residence” poi replicato nell’organizzazione alberghiera. Alcuni servizi venivano portati all’esterno della cellula abitativa, come i luoghi di convivialità e di svago, per coniugarsi con una forma i vita collettiva possibile preservata all’interno dell’Unitè. Una soluzione che non trovò un consenso da tutti condiviso, anche per la proposta di un modo radicale della concezione abitativa. Un modo che escludeva di fatto i momenti di incontro all’interno dell’abitazione, pur comprendendoli all’interno dell’Unitè.
Ora, quella cellula pensata ma attuata con discutibili e scarsi risultati all’interno di una struttura non contestualizzata e priva di radicamento sociale, potrebbe vivere una nuova stagione. Potrebbe svolgere una funzione mista residenza-lavoro. Intendiamo parlare del lavoro a domicilio, detto con locuzione, per così dire, più aggiornata smart working. Già molto diffuso all’estero, principalmente negli Stati Uniti, in Italia si è imposto nel periodo della pandemia per tentare di salvaguardare il posto si lavoro in tempi di restrizioni della circolazione. Lo smart working introduce un nuovo modo di intendere il rapporto casa lavoro, comportando aspetti di cambiamento nella sua organizzazione. Bisogna però riflettere su questo aspetto. Infatti, oltre a spazi definiti e dedicati alla funzione lavoro, con possibili variazioni dovute a diversità tipologiche, esistono altri fattori, oltre a quelli progettuali che devono essere obbligatoriamente introdotti. La destinazione d’uso della cellula casa-lavoro diventa bivalente, i vari consumi di esercizio vanno rivisti e ricollocati. Il tramite digitale diventa il “nuovo realismo virtuale” che modellerà comportamenti e stili di vita.

Verso lo smart working
La pandemia ha, in questo contesto, accelerato la messa in atto di cambiamenti già abbozzati o preannunciati. Ma non tutto potrebbe procedere come prefigurato. Il ritorno della contiguità casa-lavoro potrebbe suggerire il ritorno a forme di organizzazione lavorativa neoartigianale, a patto che lo scenario di mercato possa cambiare e favorire questa che potrebbe diventare una possibile alternativa.
Un alternativa a dire il vero poco prevedibile se si pensa allo scenario effettivo, quello della globalizzazione, che comporta una distanza fisica anche considerevole fra casa e lavoro. La residenza è una parte della casa, quella destinata alle funzioni elementari del mangiare e del dormire. L’altra parte è quella dell’attività lavorativa, che si avvale di dispositivi tecnologici avanzati per l’esecuzione del lavoro.
Con il tempo i cambiamenti indotti nella società possono essere rilevanti: una rottura dei contatti diretti interpersonali fra i lavoratori, nonché la perdita identitaria del luogo di lavoro e un azzeramento degli spostamenti fisici casa lavoro,. Con la conseguenza di un annullamento di possibili incontri ed sviluppi comunitari. Anche lo scenario politico e istituzionale può cambiare, in ragione di una atomizzazione sempre più spinta dell’individuo, con ricadute culturali e sociali anche rilevanti.
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