Un devastante crollo demografico, l’incremento della tassazione per ovviare alla carenza di entrate dovuta allo spopolamento, la sparizione della classe media schiacciata dall’insostenibile peso del fisco e dal dispotismo di un potere senza controllo. In aggiunta, un’immigrazione incontrollata utilizzata, tra le altre cose, come ultimo e disperato strumento di ripopolamento. Il tutto condito da un’esplosione di edonismo, individualismo e lassismo etico-morale, soprattutto tra le classi agiate e dirigenti.
No, la situazione appena rappresentata non è quella del nostro Occidente, o dell’Italia contemporanea, anche se la ricorda da presso: si tratta di una sintesi della descrizione della società romana dell’epoca tardo-antica vergata dallo storico francese Michel De Jaeghere, direttore del bimestrale Figaro Histoire, all’interno del suo saggio Gli ultimi giorni dell’Impero Romano, pubblicato nel Belpaese dalla casa editrice Leg nel non lontano 2016. Un saggio che ha ribaltato la vecchia (e vetusta) tesi di Edward Gibbon, per cui le cause del crollo dell’Impero d’Occidente si sarebbero dovute cercare, tra le altre cose, nella diffusione del Cristianesimo, così come le diverse teorie che puntano il dito quasi esclusivamente sul ruolo svolto dalla forza prorompente delle invasioni barbariche. Secondo il saggista francese, infatti, non fu l’onda d’urto di eventi traumatici di origine esterna a consegnare alla storia la gloria della Roma imperiale ma furono fattori di origine interna a determinarne la lenta ma inesorabile consunzione. La società romana si spense, non fu spenta. Si auto-distrusse, non fu distrutta. Può apparire una differenza meramente retorica, ma non lo è, non lo è affatto. La tesi, infatti, si sposa perfettamente con ogni concezione della storia che si possa definire realmente e propriamente tradizionale. Una concezione, cioè, ciclica (come lo era quella dei Veda, di Platone e Aristotele ma anche di un quasi ‘contemporaneo’ come Oswald Spengler) e non, invece, lineare, come è invece per i liberali e i progressisti (un’eredità lasciata, quella sì, dalla cultura giudaico-cristiana, con l’idea di una promessa di salvezza collettiva proiettata nel futuro, che ha purtroppo avuto influenze nefaste sulla Weltanschauung occidentale dall’età moderna in avanti, una volta che tale concezione si è laicizzata, con la fede in un principio superiore sostituita dalla fede nel progresso tecnico e scientifico).

Ogni civiltà, anche la più grande e luminosa, è inevitabilmente destinata a chiudere il proprio ciclo una volta che i valori che la generarono prima decadono e, infine, scompaiono: la forza propulsiva che spinge verso la vita, una forza fatta di abnegazione, tensione eroica e ideale e spesso fervore religioso, rallenta fino a estinguersi. Ciò accade secondo la tradizionale Dottrina dei Cicli Cosmici, dall’Età dell’Oro fino, decadendo, all’Età del Ferro, oggetto di studio da parte dei più grandi Testimoni della Tradizione. Così, l’uomo diviene individuo e il suo sguardo non è più puntato verso l’Alto – e i compagni di viaggio, con i quali prima sentiva di condividere un comune destino di battaglia – ma verso il proprio ombelico. L’atomo sociale prodotto da questa involuzione, che di umano conserva esclusivamente le sembianze esteriori, regredisce così fino a uno stadio quasi ferino, orientato solo a soddisfare le proprie esigenze materiali (reali o indotte da condizionamenti culturali), sebbene la Zivilisation, con i suoi comfort, lo privi anche degli aspetti positivi propri di una condizione animalesca. Ma vivere in questo modo significa, semplicemente, esistere (lat. exsistere, stare fuori). Cioè attendere, passivamente e giorno dopo giorno, il decesso. Che, infatti, finisce per divenire quasi desiderabile […]
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