“L’arte fa schifo”

da Emanuele Ricucci

Partiamo da un assunto: non esiste tempo per l’arte; ogni tempo è per l’arte. Nessuna forma di contemporaneità, di suo, brutalizza o magnifica il processo artistico. Solo una condizione è nemica della creazione: il grado di evoluzione o di involuzione dell’apparato umano. Tanto più gli uomini di quella frazione ambiscono al Bene come conoscenza – evocando Schopenhauer -, alla cura dello spirito, alla generazione di una coltivazione individuale e sociale, alla ricerca dell’Alto, dell’altro, a dedicarsi il tempo e la vita, a ragionare sopra le cose del reale e dello spirito, tanto più l’arte avrà una funzione, un’utilità, imporrà una direzione, creerà aggregazione pensante.

Così anche la Bellezza non svilirà in una sterile scenografia che fa da sfondo al viaggio dell’impiegato verso la banca ogni mattina, schivando il pericolo di essere relegata a inservibile grazia estetica da ammirare con la moglie annoiata e i figli piccoli nelle domeniche di pioggia, per ambire, ancora oggi, a essere ciò che l’ha resa vitale nei secoli. Contrariamente, più una società genererà uomini disintegrati, non più – d’annunzianamente – intieri ovvero ‘rifatti nella libertà’ e che trasformino la propria vita in un’opera d’arte, perfettamente conformati, uniformati, dediti solamente alla gratificazione istantanea, stuprati dalla materialità, aridi, secchi, sciocchi, incapaci di coltivarsi, di dedicarsi il tempo e la vita, sismici, continuamente precari, senza Dio, né patria, né confine, più la rappresentazione artistica scadrà, perderà significato, si reggerà solamente sul compromesso proposto da Angelo Crespi: «l’arte vale perché costa o costa perché vale?». 

Ogni tempo ha la sua arte, certamente, ma ogni arte ha il suo uomo, il suo pictor, il suo modellatore, il suo visionario. Tanto cresce l’uomo in società, tanto l’arte troverà il suo peso reale nel presente e nella storia. Questione di connessione. L’artista è un pontefice massimo, ben oltre le grazie del vicariato di Cristo; come singola unità di carne e d’intelletto, è il tempo, corrode il tempo, conquista il tempo, si erge dalla sua stanzetta anche senza il consenso comune, anche nel pubblico ludibrio. Egli, se vuole, se è in grado, eccelle, sovrasta, risplende. Egli, se puro e sulla via che ci apprestiamo a descrivere, crea un ponte singolare tra sensibilità e realtà, tra l’Assoluto e la sua rappresentazione, tra la rabbia e la gloria, tra immaginale e immaginario, tra significato e significante, tra la mano e l’intelletto, tra questo tempo e ogni tempo. Irrinunciabile scambio continuo e inconsapevole, maturo e sempre diverso, che Vasari ci descrive con la solita acutissima osservazione parlando di Leonardo Da Vinci: «Vedesi bene che Lionardo per l’intelligenza de l’arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finì, parendoli che la mano aggiungere non potesse alla perfezione dell’arte ne le cose, che egli si immaginava, conciò sia che si formava nell’idea alcune difficoltà sottili e tanto maravigliose, che con le mani, ancora ch’elle fussero eccellentissime, non si sarebbero espresse mai». Parole sante che occorrerebbe scolpire, ancor più perché cronaca del reale, ritenute così importanti – nel percorso generale – da portare Vittorio Sgarbi a definire Leonardo «genio dell’imperfezione» […]

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