Oggi non lo assegnerebbero nemmeno il Premio Nobel per la Letteratura che venne conferito, in piena guerra fredda nel 1970, ad Aleksàndr Isàevic Solženicyn («per la forza morale con cui ha portato avanti le tradizioni irrinunciabili della letteratura russa»), pensando forse allora di poterlo arruolare, al di là della sua grande capacità letteraria, fra i sostenitori del libero Occidente contro la tirannia sovietica. Del resto, si sa che spesso il Nobel – specie quelli per la letteratura e per la pace, come nel caso della colomba Obama! – è stato attribuito dall’Accademia di Svezia a fini politici; non potendosi spiegare altrimenti l’esclusione di grandi poeti e scrittori come Ungaretti, Pound o Borges; per non dire della preferenza accordata al ‘soccorritore rosso’ Dario Fo piuttosto che a un vero poeta come Mario Luzi, o la scelta caduta sui troppi ‘caval donato’ a cui non era il caso di guardare in bocca.
Ma in tempo di odio artatamente indotto verso tutto ciò che è russo, dove, non solo si discriminano artisti atleti e semplici cittadini colpevoli di essere nati nel luogo sbagliato, ma si ha perfino l’ardire di discutere giganti come Dostoevskij, figuriamoci se non si avrebbe da ridire su un convinto sostenitore di Vladimir Putin come Solženicyn. Com’è noto, in Occidente l’appoggio a Zelensky «non è facoltativo», e quindi: guai ai russi! Anzi, non ci sorprenderebbe venire a sapere che qualche fenomeno arrivi a proporre la revoca postuma di quel premio: uno di quei paladini della democrazia che si sono assunti l’ingrato compito di guidare e istruire l’opinione pubblica, i quali ammorbano il panorama culturale e politico, intenti a rosicchiare senza posa opere e volumi di autori per loro inarrivabili, e perennemente impegnati a segnare il territorio di redazioni giornalistiche, case editrici, salotti televisivi, cattedre universitarie e mondo del cinema coi loro riconoscibilissimi escrementi.

Il ‘cancellismo’, termine con cui si vuole evidenziare il carattere patologico e deformante dell’attuale voga della cancellazione del passato di cui è affetto l’Occidente estremo (leggasi America!), è, del resto, figlio illegittimo dei ritocchi fotografici che si facevano nell’Unione Sovietica, quando sparivano dalle foto ufficiali della nomenclatura i personaggi caduti in disgrazia, nonché fratellastro delle attuali rimozioni dei profili social di tutti quelli che non si comportano bene! All’epoca dell’assegnazione del Nobel, Solženicyn venne duramente attaccato dai comunisti e dagli intellettuali engagé, in quanto «agente della reazione e dell’imperialismo americano»; gli stessi che, in seguito, lo avrebbero combattuto per le sue critiche all’Occidente capitalistico, corrotto e decadente, diventato nel frattempo il loro nuovo punto di riferimento (e di sostentamento!): doppiamente servi, perché sempre e comunque entusiasti e orgogliosi del loro servilismo. Infatti, lo scrittore russo, che aveva vissuto sulla propria pelle la tirannide del socialismo reale e del più vasto sistema concentrazionario della storia (nei gulag e nella precaria libertà concessa al costo di «vivere nella menzogna»), condannato al ventennale esilio che lo costrinse a lasciare il suo Paese, si trasferì in America, tentando di ricostruire nella sua grande casa immersa nei boschi di betulle di Cavendish, nel Vermont, un angolo della madrepatria; avendo al contempo la possibilità di conoscere direttamente il modo di vivere statunitense; per lui incomprensibile e – a lungo andare – insopportabile, perché il paradiso capitalistico, alla fin fine, gli si rivelò in tutta la sua devastazione consumistica, che – oltre all’inquinamento ambientale e alla distruzione della natura – causava la ben più temibile rovina dello stesso essere umano.
Solženicyn, mostrando il vero volto del criminale esperimento sovietico, narrato da par suo e documentato con un immane lavoro di ricerca sulle migliaia di giornate dei milioni di Ivan Denisovič finiti nel tritacarne dell’Arcipelago Gulag, risultò molto più pericoloso – come accade spesso con la grande letteratura – per il sistema da lui denunziato in confronto a qualunque postazione missilistica. Pertanto il suo rientro in patria, dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989, costituì un segno tangibile della rinascita spirituale di quel martoriato Paese, e un personale contributo di forza morale, indicando in prima persona una via per la vita ai suoi compatrioti, restituendo l’unicità a tutti coloro che la macchina repressiva aveva provato a ridurre a informe e vago numero, in nome di un presunto ‘bene comune’ […]
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