Uguale, troppo uguale: intervista ad Alain de Benoist sull’ideologia del medesimo

da Alain de Benoist

L’ideologia del medesimo – che dà il titolo ad un libro da poco uscito in Italia e molto apprezzato dal pubblico – è una definizione che Lei ha coniato e che sembra essere davvero calzante per descrivere lo spirito di questo tempo. Come definirebbe il periodo che viviamo? 

Ogni teoria o dottrina, religiosa o profana, che consideri le differenze (tra gli individui, i popoli, le culture, ecc.) come qualcosa di poco importante, se non addirittura come qualcosa di nocivo, rientra, a mio avviso, nell’ideologia del Medesimo. Per quanto riguarda gli uomini, l’ideologia del Medesimo per eccellenza è l’universalismo, che ritiene che gli individui siano fondamentalmente gli stessi ovunque, in modo da poter imporre loro le stesse istituzioni politiche, economiche e sociali. L’universalismo postula anche che gli individui appartengano all’umanità in modo immediato, mentre in realtà vi appartengono in maniera mediata, solo per il tramite di una cultura. Il risultato dell’attuazione dell’ideologia del Medesimo è l’avvento dell’uomo intercambiabile e di un mondo unidimensionale. Preferisco usare questa espressione di ‘ideologia del Medesimo’ piuttosto che il termine ‘egualitarismo’, che è più ambiguo nella misura in cui può far pensare che la condanna dell’egualitarismo implichi quella di qualsiasi forma di uguaglianza.

La dittatura del ‘politicamente corretto’, che Lei ha denunciato in un altro Suo libro, contribuisce ad imporre questa tendenza omologante? In che modo e con quali strumenti? 

Essa vi contribuisce necessariamente poiché favorisce la diffusione del pensiero unico, cioè di un pensiero che dovrebbe portare tutti a pensare la stessa cosa. Il ‘politicamente corretto’ in origine si presentava come un linguaggio attento ai risentimenti e alle suscettibilità. L’oggettività del linguaggio doveva ricalcare la soggettività delle esigenze arbitrarie degli uni e degli altri. Ma ben presto, il ‘politicamente corretto’ si è rivelato sinonimo della Neolingua (Newspeak) che George Orwell ci descrive in 1984 e il cui obiettivo è quello di restringere il campo del pensiero.

Crede che il processo di globalizzazione – da questo punto di vista – abbia fatto un salto di qualità negli ultimi decenni? Siamo forse passati da un mero meccanismo economico ad una tendenza che cerca di imporre anche un modo di concepire l’esistente? 

Certamente. Sarebbe un errore analizzare la mondializzazione (o globalizzazione) solo dal punto di vista dell’economia, del commercio e della diffusione mondiale delle tecnologie. Così come il capitalismo non è solo un sistema economico, ma un mezzo per porre tutti i rapporti sociali sotto l’orizzonte del feticismo della merce, la globalizzazione sconvolge sia gli stili di vita che i sistemi di valori. Porta con sé una concezione dell’uomo come un essere fondamentalmente egoista e narcisista, che dovrebbe cercare costantemente di massimizzare il proprio miglior interesse privato. In un tale clima, i legami sociali organici scompaiono e l’immaginario simbolico viene gradualmente colonizzato dai soli valori mercantili. Tuttavia, la globalizzazione non deve essere vista come un processo che tende ad omogeneizzare (omologare) le menti e i costumi unilateralmente. La globalizzazione va intesa anche come dialettica. Più si estende, più suscita resistenze, che possono essere sia moderate che frenetiche. È una regola generale: tutto ciò che si attualizza potenzia il suo contrario […]

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(Intervista a cura di Marco Scatarzi)

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