Abbiamo ormai capito di essere nel pieno della rivoluzione digitale, appena all’inizio di una Nuova Era in cui microchip e big data stanno modificando ogni aspetto della nostra vita, così come il carbone e il vapore contribuirono a stravolgere in modo definitivo gli assetti economici, sociali, politici e morali all’alba della rivoluzione industriale. Un ottimo punto di osservazione delle variazioni in atto è dato dall’esame del linguaggio che è l’espressione più palese delle modifiche culturali in atto, nonché la prima fonte di approccio a qualsiasi tipo di mutamento sociale. Molto si è scritto (e poco si è fatto) riguardo alla cosiddetta ‘neolingua’ che impone con regolarità metodica sempre nuovi stereotipi politicamente corretti attraverso uno scientifico bombardamento mediatico. Però, al di là di questa linguistica ideologizzata, c’è una più profonda modifica lessicale che si è andata imponendo e che andrebbe analizzata.
Già alla fine del secolo scorso, il nuovo vocabolario digitale, con i suoi termini anglofoni, è sembrato subito straordinariamente innovativo, proprio perché erano innovativi gli strumenti che imparavamo a usare: laptop, mouse, floppy, USB, device, smartphone, database… Tutte parole nuove (per i tempi) che si andavano a sommare alla lunga schiera di neologismi imposti dalla colonizzazione economica e, purtroppo, anche culturale americana nei decenni precedenti, soprattutto nei settori dell’economia e della comunicazione (marketing, brand, convention, target, feedback, consumer…).
Il linguaggio social, nei primi anni del Terzo millennio, ha poi ulteriormente ampliato e diversificato le nostre forme espressive introducendo una serie di nuovi termini (influencer, hater, streaming, follower, cookie…) e di curiosi neologismi (googolare, twittare, linkare, loggarsi…) che sono diventati parte integrante del linguaggio – soprattutto dei giovanissimi – dando loro la sensazione di essere davvero parte di una nuova era, di in una nuova dimensione ‘rivoluzionaria’, frutto della inarrestabile ‘fiumana del progresso’ (per dirla con Verga).
Altra novità epocale raramente analizzata è il progressivo spostamento dal linguaggio parlato a quello scritto. Complice più recente (ma certo non casuale) è stata la progressiva perdita di socialità conseguenza delle ‘paure’ indotte dalla follia pandemica. Già prima del lockdown, tuttavia, il fenomeno era evidenziato dalla netta diminuzione delle chiamate telefoniche rispetto all’uso dei messaggi (e-mail o chat). Nel periodo pandemico, quindi, come noto, si è dovuto spostare in video tutto ciò che un tempo era in presenza (eventi, convegni, incontri di lavoro, corsi di studio). Adesso, invece, stiamo assistendo a una drastica riduzione dell’uso delle video-chiamate – o conference-call – senza però che si sia ritornati a un vero e costante contatto sociale. Esiste oggi un crescente auto-isolamento, conseguenza diretta del cosiddetto smart working, delle cene con delivery, degli acquisti on line e, ovviamente, del terrorismo mediatico che ci ricorda costantemente i pericoli del contagio, della violenza, del caldo, del traffico o… di qualsiasi altra cosa. Tutto ciò sta portando a una sorta di inibizione al contatto e, quindi, alla comunicazione verbale e ne sa qualche cosa chi insegna nelle scuole medie.
Di contro, invece, continua ad aumentare il volume e la mole di comunicazione scritta, divenuta basilare soprattutto nelle classi di età più giovani che ormai si parlano via smartphone anche a un metro di distanza e che, già alle elementari, conoscono le app, usano le chat e digitano molto rapidamente con due pollici… mentre trovano grande difficoltà a scrivere una frase su un quaderno usando una penna.
A questo punto, allora, diventa interessante spostare l’analisi del linguaggio da quello parlato a quello scritto che ha subito, in quest’ultimo ventennio, un’evoluzione (o involuzione) sorprendente. Il modo di comunicare via chat, tipico inizialmente dei giovanissimi – poi però, via via, anche degli adulti, fino a diventare comune anche nei rapporti sociali e di lavoro – ha introdotto variabili formali che ci sembrano straordinariamente innovative. Ma siamo davvero sicuri che sia tutto così nuovo e diverso? […]
VUOI CONTINUARE A LEGGERE QUESTO ARTICOLO?
ACQUISTA O ABBONATI ALLA RIVISTA: