Il sottotitolo del suo ultimo libro è una condanna senza appello all’attuale stato di cose: perché e in che senso – come dice nel testo – «non siamo più padroni del nostro destino»?
Non lo siamo più perché il sistema in cui siamo vissuti, almeno fino al crollo del muro di Berlino, ha cambiato pelle senza che noi ce ne accorgessimo. I meccanismi della globalizzazione hanno fatto sì che la nostra società non abbia più mirato a un equilibrio virtuoso tra principi, realtà economica sociale e comunicazione, bensì a esportare uno stile di vita unificato in tutto il mondo, facilitando concentrazioni di potere che non hanno precedenti nella storia della democrazia e del capitalismo. Tutto ciò è avvenuto senza che questo processo venisse metabolizzato dal ‘pubblico’. C’è stato un cambiamento della nostra realtà senza che ci fosse una vera presa di coscienza. Una delle conseguenze più nefaste è, d’altra parte, quella sensazione che molte persone provano, quasi di un malessere, a tratti un vero e proprio disagio, non del tutto spiegabile razionalmente. Quella sensazione di sentirsi quasi impotenti rispetto a eventi di cui non si comprende la reale portata, subendone però gli effetti più malevoli.
Le statue distrutte o imbrattate sono oggi il simbolo della ‘cancel culture’ più mediaticamente evidente e noto. Ma quali sono gli effetti a lungo termine dell’applicazione sistematica di quest’ultima a livello collettivo?
Vi sono almeno due effetti di questo fenomeno, uno più superficiale e un altro che va più in profondità. Il primo è la diffusione di un certo attivismo che vediamo espresso in modo molto forte in diversi ambiti, come un certo ecologismo o il movimento ‘Black Lives Matter’, che finisce per rispondere – in realtà – a motivazioni politiche. Lo vediamo proprio in questo periodo in cui l’attivismo è utilizzato come strumento per fare pressioni sul governo Meloni. Ci sono studenti che scendono in piazza riutilizzando addirittura slogan degli anni ‘60 che si guardavano bene dal protestare quando al potere c’era Mario Draghi.

E il secondo?
La seconda direttrice, e più insidiosa, è che la cancel culture contribuisce al processo di sradicamento identitario che caratterizza le nostre società. Come ha dimostrato il sociologo francese Jacques Ellul, l’uomo che perde le sue radici, la sua identità e le sue tradizioni, è un uomo che, spinto in una corrente edonista, pensa di divenire una sorta di superuomo. Al contrario, diventa molto più fragile e molto più manipolabile. La cancel culture è parte di queste tendenze che ci rendono molto più malleabili e molto meno resistenti ai cambiamenti e alle influenze esterne. E questo è preoccupante proprio perché ne va della qualità della nostra esistenza.
Nel suo libro parla della nostra epoca come l’era della disarticolazione identitaria e sociale…
Nel libro compongo le tessere di un complesso mosaico per dimostrare come aspetti apparentemente scollegati, in realtà, sono coerenti e correlati alle tecniche che oggi vengono usate per gestire e indirizzare la società globalizzata in cui noi viviamo. E tutti questi questi fenomeni, apparentemente autonomi e scissi, si ritrovano tutti esattamente nel convergere in questa direzione […]
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