Perché non possiamo dirci democratici

da Renzo Giorgetti

Non possiamo dirci democratici. In primo luogo perché la democrazia non esiste e non potrà mai esistere, in secondo luogo perché anche se esistesse sarebbe sbagliata. Tutto è illusione in essa, le origini, lo sviluppo, il funzionamento, le finalità. Si tratta, in ultima analisi, di un’opera di ipnotismo. Già a partire dal nome stesso la democrazia è illusoria. La nebulosità del termine e l’indeterminatezza del suo significato – sempre diverso con il mutare delle epoche o semplicemente secondo le interpretazioni personali – ha giocato a favore di questa sfuggente istituzione, che è sempre riuscita a eludere ogni critica radicale con il pretesto di non essersi mai riuscita a manifestare compiutamente, di essere stata mal applicata o tradita: espediente fin troppo abusato, agevole via di fuga per nascondere una totale mancanza di fondamento.

La democrazia, per come siamo abituati a intenderla, è un’istituzione completamente moderna, che con quella del passato non ha in comune nient’altro che il nome (su questo si espresse già lo storico istituzionale Louis Gernet) e che, oltre a non rispecchiare minimamente i principi cui asserisce di ispirarsi, dà e ha sempre dato prova inefficienza in quella che dovrebbe essere la sua principale caratteristica: l’esecuzione della volontà popolare. Fallimenti continui – per cui si è sempre trovata una qualche scusante di solito definita con il termine, buono per tutte le stagioni, di ‘crisi’ – che in realtà non testimoniano altro che la totale inconsistenza del modello, che evidentemente è solo una maschera di poteri ben differenti. Si tratta, a nostro avviso, di una creazione artificiale che, utilizzando il nome di un’istituzione ormai morta e sepolta da secoli, è riuscita a imporsi e a conquistare il potere, ottenendo anche un certo seguito, illudendo le masse sulla sua vera natura. Natura che, lungi dall’essere realmente ‘democratica’, è in realtà di tutt’altro tipo, totalitaria e dispotica. Quello attuale è infatti un dispotismo di fatto, mascherato da libertà di principio. Utilizziamo questo termine non a caso, perché descrive esattamente la situazione: il despotes è, nell’Ellade antica, il padrone della casa, cioè dell’oikos, il complesso produttivo e sociale comprensivo di animali, oggetti e schiavi. Gli attuali detentori del vero potere, che per l’appunto è un potere economico, lo esercitano allo stesso modo, in maniera totale, servendosi liberamente di tutto ciò che ricade nella loro sfera di influenza, e che è a tutti gli effetti loro, senza troppo considerare le leggi e le regole ufficialmente in vigore: possiamo considerare il mondo intero come un enorme complesso produttivo nelle mani di pochi e potenti proprietari. Situazione piuttosto malagevole da spiegare a popolazioni cui, in nome della libertà, si era fatto abbandonare ogni principio di autorità e che richiedeva, quindi, un espediente il più possibile scaltro ed efficace per illuderle di essere padrone del loro destino. 

L’idea di un popolo che si governa da solo basandosi sulle decisioni di una maggioranza puramente numerica di individui tutti uguali è stata sicuramente la migliore, in quanto sottraeva visibilità e responsabilità ai reali detentori del potere senza però diminuire la loro influenza.

Il fascino di tale idea consiste in un equivoco di fondo, perché richiama, in maniera contraffatta, concetti simili che sono sempre esistiti nel pensiero politico di tutti i tempi. Concetti che una volta applicati funzionarono, portando anche a risultati validi, ma che nulla hanno in comune con il prodotto moderno che pretende di essere il loro diretto discendente.

Il principio della sovranità secondo la concezione tradizionale si basa sulla presenza di realtà metafisiche che agiscono sul mondo fisico, su princìpi che riescono a manifestarsi concretamente grazie a persone o istituzioni che ne colgono e incarnano le influenze. Tale è la figura del monarca sacrale, il re che è anche pontefice, vero punto di collegamento tra il Cielo e la Terra, rappresentante del Divino nel mondo, custode delle leggi che reggono l’ordine cosmico. Figura che non appartiene alla storia profana ma che, ormai divenuta solo un ideale, è rimasta comunque un esempio e un modello per ogni forma di governo realmente armonica e stabile. Dall’Egitto alla Cina, da Roma all’India, il sovrano deve avere in sé qualcosa della divinità, una qualità trascendente che lo rende unico per quel ruolo unico che è l’esercizio del potere. Ma nella realtà molto spesso questo non avviene e le necessità di un vivere ordinato hanno spinto verso soluzioni pragmatiche aventi come criterio fondamentale soprattutto l’efficacia. Sono state quindi elaborate alternative al Sacrum Imperium, contraddistinte da un governo collegiale, da assemblee che, riunendo la parte migliore della società, fossero in grado di gestire le più importanti questioni del vivere civile. E anche se spesse volte nella storia il modello monarchico fu contestato e concretamente messo da parte, questo non avvenne mai a favore di forme di governo democratico (secondo il significato attuale) quanto piuttosto repubblicano, ovvero secondo un assetto costituzionale in cui il potere era gestito da gruppi ristretti, privilegiati a buon diritto in quanto qualificati, dotati cioè di una qualche capacità – forza, ricchezza, prestigio – che li elevava e forniva loro la legittimità per governare. Avendo come referenti e interlocutori solo i propri pari, l’uguaglianza vigeva in senso relativo, riguardando solo un numero limitato di individui, di solito quelli ‘buoni a qualcosa’, che venivano a costituire, in quel contesto, una piccola aristocrazia basata sul merito. La riunione e la discussione del momento assembleare costituivano, quindi, il momento di risoluzione delle questioni riguardanti la vita comune, quella mediazione tra interessi che permetteva a tutte le parti in causa di essere veramente protagonisti nella gestione di una materia comune, della res publica.

Membri di uno stesso grande organismo, ne costituivano la parte più nobile, direttiva, che guidava le scelte della collettività tutta, anche quella esclusa dai processi decisionali, senza pretendere o fingere di coinvolgerla nell’attività di governo […]

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