Byung-Chul Han e la rivoluzione (im)possibile

da Marco Scatarzi

Byung-Chul Han – nato a Seul, ma emigrato per motivi di studio a Berlino – è considerato il più noto filosofo contemporaneo. Forte di un percorso accademico di ottimo livello, si occupa da anni di antropologia, estetica e comunicazione di massa, con particolare attenzione alle ricadute del neoliberismo e della tecnologia digitale. Le sue opere – tra le più celebri ‘Nello sciame’”, ‘Psicopolitica’ e ‘La società della stanchezza’ – hanno riscosso un notevole successo internazionale, contribuendo a diffondere un modello critico che non manca di offrire parole d’ordine e spunti di riflessione. L’ultimo libro – una raccolta di articoli e interviste per le edizioni ‘Nottetempo’ – riporta un titolo che rivela, al contempo, il radicalismo e il fatalismo del suo approccio intellettuale: ‘Perché oggi non è possibile una rivoluzione’: concetto netto, che desta curiosità e non lascia alcuno spazio alla speranza.

Anzitutto, occorre premettere che tutto nasce da un confronto – anche aspro – che il filosofo coreano ha avuto con Antonio Negri, assai più ottimista nel considerare realizzabile una resistenza globale contro il dominio capitalista. Ritenendo ingenua e fuori dalla realtà la lettura dei comunisti rivoluzionari alla Negri, Han si lancia in una disanima dei tempi attuali, compiendo una ricognizione sulla natura del potere e del dominio. La conclusione è impietosa: mentre il potere stabilizzante della vecchia società industriale era visibilmente repressivo, operando uno sfruttamento che generava resistenze, quello della società neoliberista è seduttivo, quindi impercettibile e neutrale. Alla figura dell’operaio si è sostituita quella dell’imprenditore di se stesso, dedito a un auto-sfruttamento volontario che si dispiega in nome della libertà e che bandisce l’alienazione per fare spazio alla resilienza: siamo – contemporaneamente – i servi e i padroni di noi stessi, assolvendo il sistema da ogni responsabilità. Questo capitalismo della seduzione, la cui forza è stata quella di rendere desiderabile ciò che un tempo sarebbe stato preventivamente rigettato, spinge il singolo a denudarsi volontariamente: ci si passa ai raggi X, scegliendo di essere dei consumatori tracciati e sorvegliati, in linea con un feticismo della merce e una solitudine congenita che permette al potere di perpetuarsi in assenza di costrizioni. Questa società ‘trasparente’, è priva di ogni profondità: edulcorata dal ‘politicamente corretto’, riproduce il flusso liscio del capitale, senza sfumature e senza spigoli. Il paradigma globalizzante ha il vizio di sbandierare nella teoria ciò che nega nella pratica: in nome della ‘condivisione’, isola; in nome della ‘libertà’, sorveglia; in nome dell’inclusione, discrimina. La ‘società aperta’, quella della sharing economy è la più chiusa che il mondo abbia mai conosciuto: la doppia morale protestante che animava ‘l’etica del capitalismo’ si è fusa con la doppiezza strutturale delle contro-élite massoniche dei ‘lupi travestiti da agnelli’, anticamera dell’apparato tecno-finanziario mondialista. Da questo punto di vista, sebbene si tratti del suo testo più controverso e forse meno incisivo, Han si pone delle domande legittime: è mai possibile immaginare una rivolta in un simile contesto? Contro chi e su quali presupposti? Con quale materiale umano e sulla scorta di quali precetti? I dati mostrano un crescente e preoccupante aumento della violenza auto-inflitta: le lesioni personali, i disturbi psichiatrici da isolamento volontario e i suicidi hanno sostituito le proteste di massa e le organizzazioni rivoluzionarie. L’aggressività è rivolta verso di sé perché, nel tempo dell’ego, tutto diventa ‘ad personam’. Ma fin qua, nulla di nuovo: l’ambiente tradizionalista o nazional-rivoluzionario, del resto, parlava di decadenza e ‘rivolta contro il mondo moderno’ quando i marxisti erano ancora abbagliati dal ‘sol dell’avvenire’. Si tratta, allora, di inquadrare le ragioni di questo declino. I morti viventi che Han denuncia, inerti e sostituiti dalle macchine, sono il prodotto perfetto di un tempo che ha esacerbato lo spirito di quell’Illuminismo dal quale ha preso forma – tra gli altri – anche il pensiero marxista: il capitalismo che rimuove la morte e sfida l’eterno, distruggendo la vita e svuotandola di ogni significato, non è forse il gemello borghese di quel materialismo ateo che voleva recidere ogni rimando al sacro e imporre l’uguaglianza universale? Economicista, positivista, industrialista e materialista, il brodo di coltura che ha generato questo baratro è il medesimo nel quale si sono generate – per poi fondersi – la teoria liberale dell’individuo e quella marxista del collettivo: l’appiattimento atomistico, la riduzione della persona ad ingranaggio e la sostituzione della tensione verticale con l’orizzonte del profitto e con l’utopia del ‘paradiso socialista’ sulla terra. Un post-marxista come Han, di certo, non mancherà di conoscere la massima marxiana secondo la quale: «il capitalismo non crea soltanto oggetti per i soggetti, ma anche soggetti per gli oggetti» […]

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