È una costante, per chi frequenta abitualmente i social network: nel mese di giugno, ogni anno, le bacheche e i loghi delle principali multinazionali – soprattutto anglosassoni (ma più di recente il fenomeno si è allargato anche a società di minori dimensioni, anche operanti esclusivamente nel proprio mercato nazionale) – si colorano d’arcobaleno. È il ‘pride month’, il mese dell’orgoglio omosessuale, che è stato riconosciuto ufficialmente dall’allora presidente degli Stati Uniti d’America Bill Clinton nel 1999. Durante questo mese le manifestazioni pro-Lgbt si moltiplicano, così come i concerti, le parate, le trasmissioni televisive. Non poteva mancare all’appello, quindi, il mondo degli affari. Certa letteratura spregiativamente definita ‘complottista’ vede in questo comportamento una prova della propaganda a favore della fluidità di genere da parte dei cosiddetti ‘poteri forti’, di cui soprattutto le mega-aziende sarebbero una delle colonne portanti, oltre che, in questo caso, il megafono. Certamente c’è del vero: che la cultura del radicalismo liberal-progressista sia parte del bagaglio ideologico delle élite occidentali, che permea ogni frutto del loro operato, e che il tasso di ideologia assorbito dal sistema economico dell’Ovest del mondo sia probabilmente senza precedenti è tanto palese da risultare difficilmente confutabile.
Tuttavia, è pure innegabile come la weltanschauung mercantile e borghese, propria di ogni società capitalista, sia costituita pure da una massiccia dose di ipocrisia pelosa e opportunistica. Quell’ipocrisia che, nel nome del business, porta molte dirigenze aziendali a intestarsi delle battaglie che magari non sentono realmente come proprie, ma che vanno necessariamente condivise, pena l’esclusione dal circolo di quelle che sono ritenute essere aziende illuminate e virtuose, almeno secondo i canoni del pensiero prevalente. È questo, soprattutto, il caso di realtà non multinazionali i cui ‘valori’ di fondo (l’uso delle virgolette, parlando di soggetti economici con finalità di lucro è sempre doveroso) sono sempre stati legati a un modello di società tradizionale, trasmesso anche attraverso le campagne pubblicitarie, e che, di punto in bianco, si convertono al verbo ‘progressista’, talvolta con un’inversione così radicale da lasciare interdetti: esemplificativo è, al proposito, il caso di un noto marchio nostrano, produttore di pasta e biscotti, che, dopo aver subito minacce di boicottaggio diversi anni fa, in seguito alle dichiarazioni di una delle sue figure apicali relativamente alle famiglie omogenitoriali («Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri», disse l’allora prode, oggi più mansueto ma certamente “sventurato” dirigente durante una trasmissione radiofonica), cambiò radicalmente atteggiamento in pochissimo tempo, passando dalle scuse pubbliche al divenire sponsor ufficiale del ‘Gay pride’ di Milano. Tuttavia, da parte delle realtà economiche, non c’è soltanto la necessità di rendere la propria immagine più ‘socialmente accettabile’, ma anche quella, più prosaica, di aumentare il fatturato: un sondaggio svolto da emarketer.com nel 2019, dimostrò per esempio come un quarto degli utenti di internet americani fosse più incline ad acquistare prodotti di marchi disposti a manifestare le proprie simpatie per il mondo Lgbt. Una percentuale destinata a salire fino al 71% per gli utenti gay, al 54% per i bisessuali, al 32% per i millennial (nati negli anni Ottanta e Novanta del ‘900) e al 34% per gli utenti con maggiore capacità di spesa (e questo è il dato forse più interessante da un punto di vista sociologico) […]
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