Doverosa premessa: a noi, il buonismo, non piace per niente. Così come non ci piacciono le “celebrazioni postume”, che rendono tutti “più belli, più bravi, più buoni”. Ma le storie, carriere e destini di Sinisa Mihajlović e Gianluca Vialli si intrecciano, con trame e fraseggi che meritano di essere ripercorsi. Un nastro (a tinte prettamente azzurre) che si è squarciato, a brevissima distanza, in due lembi. Uno speculare all’altro: non troppo vicini da poter essere confusi e non troppo lontani, da poter essere (per così dire), disgiunti del tutto. Due uomini e giocatori diversi, sì: ma a tratti (neppure sporadici o irrilevanti), incredibilmente simili.
Uniti da quella Samp che ha fatto sognare tifosi e calciofili incalliti. Uniti, purtroppo, dalla medesima battaglia contro una malattia silenziosa e “bastarda”. Combattivi, valorosi, iconici: uno serbo, l’altro cremonese doc. Il primo, più sanguigno. Il secondo, più taciturno ma mai silente. Mihajlović e Vialli hanno incarnato, in maniera esemplare, ruolo e simbolo del calciatore serio ma appassionato, votato più alla gloria che alla fama. Incline al sacrificio e dedito alla “rinascita”: ogni qualvolta il campo e la vita lo avessero reso necessario. Uomini e calciatori di un’altra epoca. Di un calcio oramai estinto, di un’etica sempre più slavata o a tratti inesistente. Campioni sul rettangolo verde, padri di famiglia sul campo ben più intricato della quotidianità. Carriere brillanti e palmares di tutto rispetto. Storie dense di emozioni, discese e risalite, successi e qualche sconfitta. Salti alti e colpi bassi: perché la vita non è tanto quello che ti accade ma come reagisci agli eventi che, come onde, spesso si infrangono conto di te. Ed in questo e molto altro, Sinisa e Gianluca ci hanno, indubbiamente, insegnato eccome.

SINISA, IL SERGENTE
“Uomo unico, professionista straordinario, disponibile e buono con tutti”. Marito, padre e da poco anche nonno di una splendida bambina, Violante: il ricordo di Mihajlović, più che fresco è indelebile. Strappato alla vita, dopo la partita più difficile che potesse capitargli: quella contro la leucemia mieloide acuta. Letteralmente un “tumore del sangue a sviluppo molto rapido che origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo. Una patologia estremamente aggressiva…”. Una partita segnata, forse, già dai primissimi minuti di gioco. Eppure il “duro Sinisa” non si è pianto addosso, non ha mai indossato la maglia incupita del vittimismo. Il “duro Sinisa” non ha neppure pensato di gettare la spugna, ma ha deciso di accogliere il guanto di sfida. In ogni frase e nelle singole parole, in conferenza stampa o in sede di intervista, Mihajlović ha sempre parlato lucidamente della sua malattia. Con infinita gratitudine per una moglie amorevole, con la fierezza di chi accetta di affrontare la più difficile battaglia: “Tumore, sei coraggioso ad essere tornato…peggio per te!”.
Nativo di Vukovar (al confine con la Serbia), classe 1969, cresce a Borovo. Figlio di una casalinga croata e di un camionista serbo, Sinisa non è un predestinato ma un semplice ragazzo, baciato da forza, carattere e talento. Ex di Lazio, Inter e Samp, negli ultimi tempi era ricoverato presso l’ospedale Sant’Orsola di Bologna: piazza che molto lo ha amato e supportato con immenso affetto. “Questa malattia è molto coraggiosa se ha scelto di tornare ad affrontarmi, ma se non le è bastata la prima lezione, gliene daremo un’altra”: parola di Sergente. Uomo dei record, per gol su punizione (potenti e precisi, come lui stesso era), da allenatore ha vissuto le panchine di Milan e Bologna ma anche di Fiorentina, Torino e Samp. Berretto di lana, colorito comprensibilmente spento ma sguardo sempre tagliente e luminoso: mai un’immagine da uomo dimesso o sconfitto, Mihajlović ha sempre emanato fierezza e dignità anche nelle fasi più difficili della sua personalissima partita. Vujadin Boskov lo scopre appena 20enne: a Roma, lui è come un padre e mentore per il giovane calciatore. Calciatore che esplode nel nostro campionato, nei primissimi anni ’90. Indossa la maglia giallorossa dal 1992 al 1994, suggerendo l’esordio in prima squadra di un giovanissimo Francesco Totti. Dopo Roma è tempo di Samp, per lui. Nel 1994 raggiunge Genova e fa coppia fissa con il Mancio, Roberto Mancini. Due anni dopo, convola a nozze con la bellissima Arianna Rapaccioni dando vita a ben 5, nuove vite: una famiglia tanto numerosa, quanto solida e unita. Dopo la Sampdoria è tempo di tornare a Roma (sponda laziale) col presidente Cragnotti. Nel 2000 conquista lo scudetto con Sven-Goran Eriksson, per poi “mettere in bacheca” la maglia biancoceleste quattro anni dopo. Mihajlović chiude poi la sua brillante carriera da calciatore nell’Inter, anno 2006. Rimarrà poi a Milano come vice dell’amico ed ex compagno di squadra Roberto Mancini. Esattamente due anni dopo, siede sulla panchina del Bologna, per poi diventare CT della Serbia nel 2012. Subentrerà a Delio Rossi nella “sua” amata Samp. Mentre nel 2015 arriverà il Milan a volerlo come suo allenatore: poi Torino e “Bologna bis” nel 2019. Anno terribile, quello: perché esattamente il 13 luglio annuncia, con compostezza proverbiale, la sua malattia.
UN CAMPIONE “POLITICAMENTE SCORRETTO”
Sinisa Mihajlović è stato perfetto nel suo incarnare, a pieno titolo, l’archetipo del calciatore “vecchio stampo”: sanguigno, concreto, orgogliosamente virile. Ben lontano da chiacchiericci femminei o tipici di un calcio più “salottaro” e frivolo, il serbo non ha mai esitato nel ribadire le proprie posizioni e vedute (anche politiche). Nel 2009 sulle pagine del Corriere della sera, parlò di “popolo orgoglioso – quello serbo – ribadendo che avrebbe “preferito combattere per un connazionale e difenderlo contro un aggressore esterno”. Divisivo, non compiacente e politicamente scorretto: Mihajlović ha sempre espresso opinioni e “simpatie politiche” senza porsi minimamente il problema del riscontro esterno, della polemica altrui. Come accaduto nel 2020, quando in occasione delle elezioni regionali in Emilia-Romagna disse: “Fidatevi di Matteo Salvini, io tifo per lui. Se votassi, sceglierei Borgonzoni”. In ogni esternazione, intervista o apparizione tv, sembrava che Sergente Sinisa volesse dire “E’ questo ciò che penso. Per il resto ‘me ne frego’”. Onore a lui.

GIANLUCA VIALLI: IL RAGAZZO DI CREMONA
Dal 16 dicembre 2022 al 6 gennaio scorso, sono intercorse una manciata di settimane. Era un triste ma inevitabile presagio: dopo Mihajlović, il prossimo a lasciarci sarà Vialli. Il destino ha spesso più fantasia di noi. Una fantasia bizzarra, in questo caso mesta. Quasi coetanei, anche compagni di squadra, in guerra contro la stessa malattia: con un volo pindarico, chiudendo gli occhi cercando di elaborare un’immagine piacevole che riporti sollievo, possiamo immaginare Gianluca e Sinisa che giocano. Che si cercano in campo, complici e mai domi: “Siamo forti, amico!”. Perché forti, nel calcio e al di fuori, lo erano davvero. Vialli, però, non era il primogenito di un’umile famiglia serbo-croata. Quel ragazzo, nato nella bella Cremona il 9 luglio del ’64, era figlio di un imprenditore: quinto e ultimo figlio nato e cresciuto in un contesto agiato e benestante. Con la famiglia di origini trentine, Gianluca Vialli è diventato grande nel cortile di casa (la Villa Affaitati Trivulzo di Grumello Cremonese). Calcisticamente parlando, però, viene scoperto da Franco Cristiani: una sorta di talent scout di Pizzighettone. Nel 1978, indossa la maglia grigiorossa della vicina Cremona: tutto questo, a soli 16 anni. Qualche anno dopo, si “innamora” di lui Emiliano Mondonico: a 20 anni esatti lascia la Lombardia perché la Liguria lo aspetta. Ed è così che ha inizio la brillante carriera blucerchiata: debutto con cronaca il 16 settembre 1984. Saranno 8 le lunghe e soddisfacenti stagioni alla Samp. Vialli ne sarà indiscusso protagonista, assieme al grande amico (in campo e fuori) Roberto “Mancio” Mancini. Non mancheranno le lusinghe e chiamate importanti. Il Milan di Silvio Berlusconi lo vuole con sé, nell’ 86, ma Vialli risponde “picche”: vuole rimanere alla Sampdoria e fare lì la differenza. Ed è così che la carriera del ragazzo di Cremona prende sempre più piede. Genova diventa la sua città e il ristorante Edilio, il fedele punto di riferimento: un tavolo in una sala appartata, chiacchiere in libertà e tv a disposizione. Pochissime distrazioni, condotta sana, nessun eccesso: tempi ben diversi, rispetto a quelli odierni. “Silenzio e lavoro”, il motto di Vialli: anche lui come Mihajlović guidato da Boskov, prima di approdare alla Juve di Giovanni Trapattoni detto il Trap. Non un grande feeling fra i due, ma dal ’94 le musica cambia: con Marcello Lippi, Gianluca si troverà benissimo tanto da ribattezzare il mister “Il profeta”. Era la Juventus di Vialli, Ravanelli, Baggio e di un novellino: tale Alessandro Del Piero. In Nazionale, la vita di Gianluca Vialli non sarà facilissima. Offuscato dal “fenomeno Totò Schillaci”, in Azzurro giocherà la sua ultima partita il 19 dicembre 1992. Qualche anno dopo, lascia l’Italia richiamato dalle lusinghe dei Blues: nel 1998 diventa allenatore-giocatore del Chelsea. L’anno successivo vestirà il ruolo di solo allenatore, fino all’esonero nel 2000. L’Inghilterra diventa a tutti gli effetti la sua seconda casa. Sarà amatissimo e anche nell’ultimo saluto a lui rivolto, vedremo file chilometriche di tifosi con maglie, striscioni e fiori: fiori per Gianluca e innumerevoli “Grazie per le emozioni che ci hai regalato”, davanti al Royal Marsden. Tra le immagini recenti più forti e belle, troviamo l’abbraccio profondamente commosso con Mancini: complice il trionfo dell’Italia ( di cui era dirigente dal 2019), all’Europeo del 2021 a Wembley.
RICORDO E RIVOLTA (CONTRO IL CALCIO MODERNO)
Che Mihajlović e Vialli siano stati protagonisti di un calcio che non c’è più è cosa nota. E ribadita, peraltro, in queste righe che sono un excursus nella vita sportiva ed umana di due giocatori e uomini diversi, ma profondamente simili al contempo. Il serbo, tagliente come una lama. Il lombardo, arguto come pochi. Sbagliato fare raffronti e paragoni con il calcio moderno? Probabilmente sì. Ma se il passato deve essere d’esempio e può rivelarsi autorevole pietra di paragone, allora la necessità di una profonda e critica analisi, nasce spontanea. Sinisa e Gianluca sono stati giocatori “di peso” capaci di spostare gli equilibri e uomini che mai si sono risparmiati (per la causa calcistica e non). Nati e cresciuti in un’epoca diversa, certo. Ma portatori di valori sani e integrità esemplare. Il richiamo ad un mondo fatto di solidità e pragmatismo, di professionalità e profana devozione allo sport nazionale per antonomasia. Giocatori ma soprattutto uomini ben lontani dalle frivolezze del gossip e dal narcisistico esibizionismo di social e dintorni. Professionisti e padri di famiglia, piuttosto che influencer e personaggi (da copertina rosa o profilo Instagram). Rappresentazioni plastiche di qualcosa di prezioso e inestimabile che oggi, purtroppo, pare essere andato completamente “fuori moda”. Per questa e mille altre valide ragioni, Sinisa Mihajlović e Gianluca Vialli hanno lasciato un segno, un ricordo indelebile. Le loro vicende, le rispettive storie, ci insegnano molto: ad apprezzare la vita, senza retorica ma con crudo realismo. E a combattere, soprattutto, le partite più ostiche in campo avversario. Come a voler dire “In omnia paratus”: ovvero, pronti a tutto.