Il padre è morto, viva il padre! Intervista a Claudio Risé

da Claudio Rise

L’occidente è definito da tempo come una società senza padri. Molti vi vedono la fine, positiva, di ogni (odiato) patriarcato. Altri, come Lei, denunciano da anni e con preoccupazione il vuoto lasciato dall’assenza della figura paterna. Ora però Lei è recentemente tornato in libreria con un volume (‘Il ritorno del padre’, 2022) che sembrerebbe andare in controtendenza, sin dal titolo: cos’è successo negli ultimi anni?

Per capirlo occorre riconoscere cosa aveva originato l’‘assenza’ paterna. Nel libro racconto come la ‘società senza padre’ – così chiamata dal titolo del best seller ‘Verso una società senza padre’ dello psichiatra tedesco Alexander Mitscherlich – non nacque nella testa dei padri che abbandonarono i figli, ma dalle legislazioni occidentali sulla famiglia degli anni ’70 che con i loro due principali pilastri, la legge sul divorzio e quella sull’aborto, miravano a distruggere il nucleo famigliare e la funzione paterna (e materna). Questo programma era ispirato, come poi ha riconosciuto anche molta sociologia sia economica che culturale e religiosa, dai due grandi fenomeni di quell’epoca. 

Il primo è quello del compimento del processo di laicizzazione e secolarizzazione dell’Occidente, che riduce la relazione con Dio a fatto individuale, separato da  aspetti sociali e da funzioni trascendenti. In esso il padre perde il suo ruolo di interfaccia terrestre della figura divina e l’intera struttura della famiglia diventa un’istituzione mondana, cui lo Stato assegna limitate funzioni. La separazione del padre e della famiglia da Dio riduce dunque i genitori (compresa la donna-madre), a funzionari della società. Si realizza così la forte spinta degli anni ‘70 del ‘900 allo smantellamento della famiglia, prima con la legge del 1970 sul divorzio e poi con quella sull’aborto del 1978. 

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Per effetto di queste leggi il padre dunque, come mostrano le statistiche, non si ‘assenta’ volontariamente di casa, ma ne viene espulso con le leggi di  liberalizzazione del divorzio, utilizzate  in due casi su tre dalle mogli che lo chiedono e ottengono assieme alla casa – nella grande maggioranza dei casi – e ai  figli. L’“assenza inaccettabile’ di cui parlavo nel mio libro di vent’anni fa (‘Il padre. L’assente inaccettabile’, San Paolo editore) non era dunque quella di un fuggiasco, ma di un uomo espulso dall’altro grande fenomeno sopra accennato: un processo volto a decostruire la famiglia anche per rifornire al mondo dell’economia lavoro femminile, allora molto più a buon mercato di quello maschile. D’altra parte, padri e madri non furono i soggetti psicologici autonomi di questi processi, ma gli attori generalmente inconsapevoli e per lo più ideologicamente oltre che economicamente condizionati dalle trasformazioni delle strutture politiche ed economiche di quegli anni.

Che ruolo ha svolto Il ‘68  in questo processo? 

A livello profondo – come si vedeva bene nel lavoro d’analisi – era esso stesso frutto di questa situazione. Nella ‘rivolta contro il padre’, di cui parlo anche nei miei libri, era evidente la delusione e la protesta verso la mondanizzazione di un padre ridotto a funzionario della società dei consumi, assieme alla confusa ricerca di forme educative transpersonali. Non c’era però – e di certo quel movimento non riuscì a darsi – un piano formativo e operativo in grado di generare qualcosa di migliore. Le varie derive marxiste, del resto foraggiate anch’esse dalla società secolarizzata dei consumi, non produssero – com’era prevedibile – nulla di nuovo […]

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