Nel nostro tempo dominato dallo scientismo materialista e ateo, riscoprire la filosofia morale di Leibniz (1646-1716) è come un sorso d’acqua rinfrescante. I suoi ‘Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male’ (1710) costituiscono un sistematico e organico tentativo di rispondere alle accuse che lo scetticismo dell’epoca, rappresentato da Pierre Bayle e dai ‘libertini’, precursori dell’Illuminismo miscredente, rivolgeva al Dio della tradizione cristiana. Il messaggio di Leibniz ai suoi contemporanei conserva un grande valore anche per la nostra epoca, in quanto fornisce i militanti della Tradizione di una serie di forti argomenti utili a combattere l’ateismo nichilista.
Fin dall’antichità, l’uomo si è interrogato sul problema dell’esistenza del male fisico (il dolore) e del male morale (la colpa) nel mondo: se Dio esiste ed è buono e giusto, perché esiste il male? L’argomentazione classica dei negatori dell’esistenza di Dio, formulata per la prima volta con chiarezza da Epicuro (IV-III sec. a.C.), è la seguente: o Dio può eliminare il male, ma non vuole, quindi è malvagio; oppure Dio vuole eliminare il male, ma non può, quindi è impotente. La realtà del male viene da sempre utilizzata per negare la Provvidenza divina, oppure per relegarla nell’ambito dell’indimostrabile: il male sarebbe opera di una divinità malefica, mentre non si può dimostrare razionalmente che il Dio della tradizione cristiana, buono e saggio, abbia permesso l’esistenza del male rimanendo buono e saggio.
A ciò Leibniz risponde sostenendo la sua celebre tesi dell’esistenza del migliore dei mondi possibili: il male presente nel mondo è necessariamente inserito all’interno di un mondo che Dio ha saggiamente e benevolmente decretato di creare, in quanto è il migliore di tutti i mondi che sono virtualmente concepiti dall’intelletto divino. Nella serie infinita dei mondi pensabili, Dio sceglie di conferire esistenza al mondo ‘ottimo’, nel quale tuttavia è contenuta una certa quantità di dolore e di peccato: «Ora questa suprema saggezza [di Dio], unita a una bontà non meno infinita, non ha potuto che scegliere il meglio. Infatti, come un minor male è una specie di bene, allo stesso modo un minor bene è una specie di male, se è di ostacolo ad un bene più grande; e vi sarebbe qualcosa da correggere nelle azioni di Dio, se egli avesse modo di far meglio. E come nelle matematiche, quando non c’è né un maximum né un minimum, cioè niente di distinto, si fa tutto allo stesso modo, o, quando ciò non sia possibile, non si fa assolutamente nulla; così, riguardo alla perfetta saggezza, che non è meno regolata delle matematiche, si può dire che, se non ci fosse il migliore tra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe prodotto alcuno» (‘Saggi di Teodicea’, I, 8).
Dio vuole il bene in assoluto, ma sceglie di creare quel bene che si rivela compatibile con l’imperfezione delle creature (che Leibniz chiama ‘male metafisico’), la quale è ineliminabile (Dio non può creare un altro se stesso); il nostro mondo è tuttavia un’armoniosa serie di realtà, che pur nella loro imperfezione compongono un insieme dotato di somma bellezza e bontà, nonostante la presenza del dolore e della colpa. Il male fisico (dolore) si può spiegare in vari modi (come conseguenza del peccato originale, come punizione di esso oppure come mezzo per correggere gli esseri umani), mentre il male morale (la colpa) non è voluto attivamente da Dio, ma solo permesso in vista di un bene più alto, e comunque inserito nell’armonia generale […]
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