CHI VUOLE FAR LA PELLE AGLI EUROPEI?

da Marco Scatarzi

Un tonfo sordo, seguito dalle grida di giubilo di qualche scalmanato. A Minneapolis, in Minnesota, la statua di Cristoforo Colombo è abbattuta da una folla inferocita. Siamo nell’estate del 2020, resa rovente dall’imminente tornata elettorale che avrebbe consacrato – pochi mesi più tardi – la controversa elezione di Joe Biden alla Presidenza degli Stati Uniti. La piazza, attraversata da un corteo di ‘Black Lives Matter’, assume le sembianze di un set cinematografico: telecamere, microfoni e giornalisti proiettano in ogni angolo del globo il triste spettacolo dell’iconoclastia, il cui unico scopo è quello di alimentare una ‘strategia della tensione’ che possa pregiudicare la credibilità di Donald Trump, inspiegabilmente solida malgrado la difficile situazione pandemica. La commossa rivendicazione dei dimostranti – sincera come una birra analcolica – rimanda all’omicidio del pluripregiudicato afroamericano George Floyd, ucciso in strada da un poliziotto bianco e prontamente trasformato nel martire planetario del ‘razzismo’.

Da quel momento, grazie all’evidente sostegno dei colossi della Silicon Valley, la follia della ‘cancel culture’ diventa una moda globale da ostentare con orgoglio: quello che in un mondo normale sarebbe derubricato al rango di disturbo psichiatrico della personalità è seriamente considerato un argomento di dibattito che suscita autorevoli attestazioni di stima. Il contagio è immediato: decine di statue sono abbattute e vandalizzate in  ogni angolo d’America, mentre il rigurgito oltrepassa l’oceano e contamina il Vecchio Continente, dove si chiede una damnatio memoriae che possa resettare i punti cardinali della Civiltà europea. A promuoverlo, con frustrato entusiasmo, è la variopinta galassia della sinistra progressista che – dai salotti radical-chic dei quartieri alti ai collettivi antifascisti delle periferie – pare aver scoperto l’insopportabile presenza di un ‘razzismo sistemico’ che opprimerebbe le ‘minoranze’ in nome di un ‘privilegio bianco’ che ogni ‘social justice warrior’ ha il dovere di abbattere in nome della ‘società aperta’. Un delirio provocatorio, che però ha radici lontane. La sua genesi è negli Stati Uniti, dove la sinistra liberal – nel secondo dopoguerra – sostituisce la trita retorica della ‘lotta di classe’ con una più frizzante ‘affirmative action’ che possa promuovere una generica ‘tutela delle minoranze marginali’ in nome di una ancor più vago ‘contrasto alle discriminazioni’: da allora – nella letale osmosi del metodo trotzkista con la logica fluida delle rivendicazioni individuali – il verbo progressista andrà imponendo una strategia intersettoriale che renderà orizzontale il conflitto sociale, contribuendo a trasformare la propria narrazione nel soft-power apolide e sradicante del processo globale in atto. È in questo brodo di coltura – oggi identificabile nella pervasiva logica del pensiero unico politicamente corretto – che si impongono le proteste studentesche, la sottocultura hippie, le lotte afroamericane per i diritti civili, le rivendicazioni del femminismo radicale, i cultural studies della Scuola di Francoforte e le battaglie della lobby gay: un colorito coacervo di pulsioni che – pur essendo orfane di una vera e propria Weltanschauung organica – riusciranno a coalizzarsi attorno a un nemico comune, oggi plasticamente incarnato dal maschio bianco eterosessuale. La chiamano ‘cultura woke’: nello slang afro-americano sta per ‘sveglio’ e invoca la necessità di una riscossa. Innestatasi sull’onda lunga del Sessantotto, oggi la identifichiamo nelle teorie di genere, nella prassi cosmopolita dei no borders, e – naturalmente – nella cosiddetta cultura della cancellazione. Di quest’ultima – in primis – ha destato scalpore la furia iconoclasta, del tutto simile a quella che ha mosso i tagliagole islamisti di Daesh. L’indignazione rispetto agli effetti – slegata da una riflessione sulle cause – rischia di essere del tutto inutile, se non funzionale alla salute di un discorso che ha fatto del vittimismo e del piagnisteo […]

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