Camminare per conoscere se stessi

da Guido Giraudo

Oggi lo chiamano ‘slow feet’, ‘trekking’, oppure ‘mobilità lenta’ ma è l’antico camminare dei pellegrini lungo sentieri che parlando di storia, arte, cultura e portano a luoghi di fede e devozione.

Una delle poche cose che avrebbero potuto essere risparmiate dall’oppressione pandemica poteva essere la possibilità di camminare all’aperto, lungo sentieri e strade di campagna, lontano da tutti… anche dal virus ma, soprattutto, dai virologi. Invece il peso delle imposizioni costrittive si è sentito anche qui: basti pensare che, per la prima volta dal IX secolo a oggi, per alcuni mesi non si sono registrati pellegrini in arrivo a Santiago di Compostela, la cui cattedrale, punto di arrivo dell’omonimo Cammino, è rimasta chiusa, come era accaduto forse solo nel 917, quando fu incendiata dai berberi islamici di Almanzor che fecero trasportare dagli schiavi cristiani le sue porte e le campane fino alla grande Moschea di Cordoba.

Fatta salva questa eccezione, lungo i sentieri che dai Pirenei portano in quel lembo nord-occidentale della Spagna che è la Galizia si sono messi in marcia, per quasi 12 secoli, milioni di pellegrini provenienti da ogni angolo dell’Europa o, per essere più esatti, della Cristianità, come veniva definito quell’insieme di nazioni, regni e regioni, abitato da popoli ed etnie che parlavano un centinaio di lingue e dialetti differenti ma che si riconoscevano in un idem sentire che era la fede in Cristo. Una storia grandiosa che ancora oggi rivive sotto i piedi di chi percorre il Cammino con attenzione, rispetto, curiosità e devozione… 

Il Cammino di Santiago, divenuto oggi molto ‘di moda’, quasi uno status symbol esoterico-ecologista, è in realtà una delle tre peregrinationes maiores ovvero dei tre principali pellegrinaggi riconosciuti dalla Chiesa Cristiana come momenti fondamentali per la vita di un fedele. Oltre a Santiago (ad limina sancti Jacobi, alla tomba di San Giacomo), ci sono Roma (ad limina sancti Petri) e Gerusalemme (al Santo Sepolcro di Gesù). Il pellegrinaggio, infatti, venne considerato, fin dai primi secoli, uno degli aspetti salienti della Fede. La stessa Chiesa cattolica si definisce ‘pellegrina sulla terra’ e gli apostoli – gli inviati – furono i primi pellegrini, portatori della ‘buona novella’ fino ai confini estremi del mondo allora conosciuto. 

Mettersi in marcia verso una meta sacra lasciando ogni bene, ogni certezza, ogni comodità e affidandosi solo alla carità, alla Provvidenza o alla misericordia di Dio non è solo un esercizio di Fede (termine che indica fiducia, affidamento) ma anche una grande scuola di vita. Non a caso il pellegrinaggio, inteso come momento di purificazione, dono sacrificale, ascesa e riconciliazione con il Sacro è presente in quasi tutte le religioni del mondo. 

Il Cammino è, dunque, metafora della vita, perché si compie in solitudine ma è ricco di incontri, perché conosciamo la partenza ma non sapremo se, come e quando potremo raggiungere la meta. Perché è pieno di piccole e grandi fatiche e sofferenze che dobbiamo imparare ad affrontare e a superare, passo dopo passo, senza fermarci e senza arrenderci mai. Perché un Cammino è ricco di bivi e deviazioni ed è difficile tenere la giusta via se non si presta attenzione alle indicazioni oppure si seguono le persone sbagliate o ci si lascia attrarre da un sentiero più facile verso luoghi in apparenza più accoglienti e riposanti. 

Il pellegrinaggio insegna che è necessario avere una meta sacra da raggiungere, un altare su cui simbolicamente deporre il proprio sacrificio, la fatica compiuta e di fronte al quale poter ringraziare chi ci ha guidato e protetto. Però la meta non è nulla se non si è vissuta l’intera esperienza della fatica, della solitudine, della nostalgia, del timore e, anche, del dolore. Andare in ‘pellegrinaggio’ (a Santiago, a Roma o in qualsiasi altro luogo) in aereo o in treno, con viaggio organizzato, albergo e ristorante… aggiunge poco o nulla a quella che rimane un’esperienza turistica, anche se vestita da sentimenti religiosi.

Inoltre, però, il pellegrinaggio insegna che – alla fine – né il raggiungimento della meta, né il cammino in sé sono la vera sfida, perché l’autentico problema, il dramma che ci interroga, è il ‘dopo’. Lo si capisce bene appena si arriva in quella Cattedrale che per giorni e giorni abbiamo desiderato raggiungere. Tra le lacrime di commozione e di gioia iniziano a spuntare quelle di tristezza e di smarrimento. Cosa faremo domani? Non ci dovremo più alzare all’alba e camminare per ore, magari soffrendo per vesciche e tendiniti ma immersi nella grandiosa bellezza del Creato, circondati da opere d’arte, vestigia storiche, rimembranze culturali, incontrando ogni giorno uno spaccato di umanità le cui certezze materiali ed edoniste vengono quotidianamente stracciate e umiliate dalla semplicità del Bello, dallo stupore del Sacro. 

Dunque, come metafora della vita, il Cammino insegna anche la ‘conversione’, ovvero come avviarsi per un viaggio a ritroso, riportando a casa e alla vita quotidiana quanto si è appreso, testimoniando che c’è qualche cosa di più importante, più bello e più vero che non si può comprare, che non si ostenta e non dà lustro, che non sazia e non fa ‘sballare’ ma riempie l’anima e apre il cuore, gratuitamente… […]

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