Lo scorso 26 maggio si è tenuto a Roma un importante convegno dal titolo ‘Milano, Brescia, Bologna: quale verità storica sulle stragi’, moderato dal direttore dell’Adnkronos Gian Marco Chiocci e che ha visto la partecipazione del direttore de ‘Il Riformista’ Piero Sansonetti, l’avvocato Valerio Cutonilli, il perito esplosivista Danilo Coppe, lo scrittore Vladimiro Satta, il giornalista de ‘Il Manifesto’ Andrea Colombo. Tra gli altri, ha partecipato anche Francesco Rovella, scrittore, al quale Sandro Forte ha rivolto per la Redazione di FUOCO alcune domande.
Perché i media che hanno parlato dell’evento si sono soffermati soprattutto sulla strage di Bologna e non hanno cercato di analizzare congiuntamente il tema delle stragi?
Perché quella di Bologna è la sola strage italiana che può ancora riservare sorprese anche a livello giudiziario. Ma dato che il tema del convegno era ‘quale verità storica sulle stragi’, i media avrebbero dovuto anzitutto approfondire le inchieste e i processi sulla bomba di Piazza Fontana a Milano, che esplose il 12 dicembre 1969 e causò 17 vittime.
Perché parlare di ‘verità’ e non delle ‘verità’, al plurale, sulle stragi?
Verità è una parola particolare, un po’ ambigua, né singolare né plurale: la verità, le verità. Le verità giudiziarie, le verità storiche. Finora, queste ultime sono solo servite a rafforzare i teoremi dell’accusa. Si dice: «anche se non sono bastate le prove per condannare, la verità storica inchioda gli accusati», ma la verità storica dovrebbe provenire maggiormente da un pensiero e uno sguardo diversi da quelli dell’accusa, quantomeno più obiettivi, che tengano conto delle ragioni della difesa, di un contesto più ampio che comprende anche diverse narrazioni che vanno oltre, certamente più libere dall’influenza del potere imperante. Ecco, questo sguardo obiettivo in Italia non si è potuto avere negli anni passati e dubito fortemente che si possa avere adesso.
E perché non si è giunti a questa verità?
Le ragioni principali ostative sono due: la guerra fredda e la guerra civile. Per la prima, ci siamo trovati un’Italia sotto la sfera di influenza statunitense, ma con il più grosso partito comunista d’Europa. Il che ha creato una situazione esplosiva, ad alta tensione. Un Paese in cui la sovranità divenne più che limitata, proprio sorvegliata, e quindi un Paese impossibilitato ad andare in profondità quando nei processi venivano fuori i cosiddetti ‘servizi deviati’ (ma erano veramente deviati i servizi di fedeltà atlantica?) o quando principalmente si doveva indagare sugli esplosivi che, strana coincidenza, nei processi dal 1969 al 1974 avevano la stessa provenienza. La seconda, la guerra civile, che in questo Paese sembra non finire mai, ha diviso i protagonisti delle inchieste, dal Dopoguerra in poi, in tre distinte categorie: la prima, i partigiani bianchi (o azzurri), poi i partigiani rossi, buoni a metà, perché volevano sostituire il fascismo con un’altra dittatura e, infine, i neofascisti, i cattivi assoluti, tutti golpisti, tutti attentatori e assassini, i cui padri erano stati sconfitti dalla storia e quindi erano e sono rappresentazione del ‘male assoluto’.
Questo scenario ha condizionato anche le inchieste?
Sì ma non solo le inchieste: anche tutte le ricostruzioni e tutta la narrazione imperante dal momento dell’incriminazione di Freda e Ventura per la strage di Piazza Fontana. Naturalmente, in questo panorama bisogna aggiungere di volta in volta i vari servizi segreti: il famigerato Sid, il Sismi, il Sisde, l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e poi, a seguire, quelli stranieri dalla Cia, quelli più cattivi della Cia per operazioni particolari, il Kgb e i servizi cecoslovacchi per alcune formazioni di sinistra. Ogni tanto vien fuori anche il Mossad, e tutti contro tutti in un pandemonio di convivenze, infiltrazioni, deviazioni, depistaggi, fabbricazione di veline e poi anche di peggio […]
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