Prima Roma, ovvero la Roma prima del ‘marmo’. Una recensione di Sandro Consolato

da Sandro Consolato

Durante i Lucaria (19-21 luglio), festa dei boschi sacri nell’antico calendario romano, mi sono dedicato alla lettura di PRIMA ROMA. LE ORIGINI ALLA LUCE DEL MITO, libro scritto da Giacomo Maria Prati e Valentina Ferranti, con una prefazione di Rainaldo Graziani (Xpublishing, Roma 2022, disponibile QUI)  Pur non essendo stato da me preordinato, che la lettura di questo testo sia avvenuta in questi tre giorni è un po’ una felice coincidenza, perché i due Autori ci trasportano entrambi in una Roma che non è quella “marmorea” a cui pensiamo abitualmente, ma una “Roma prima di Roma” e poi una Roma della prima età regia, in cui dominano ancora il paesaggio boschi, acque, paludi. Come scrive Prati: “Roma appare nelle sue nebbie come una sorta di eden selvaggio e primitivo, ricco di acque, boschi sacri e fuoco sotterraneo”.

Forse in omaggio a questa ‘primitività’ i due Autori (i primi 18 capitoli sono firmati dalla Ferranti, gli ultimi 8 da Prati, ma il numero di pagine è diviso pressoché equamente tra le due parti) hanno scelto di scrivere un libro le cui basi e fonti documentarie, antiche e moderne, sono lasciate alla bibliografia finale (ampia, va precisato), rinunciando a qualsiasi nota. Se questa scelta potrà dispiacere a chi è più attaccato a uno stile accademico, nondimeno il risultato è felice, perché soprattutto da parte della Ferranti, i cui capitoli sono più numerosi ma anche più brevi, si è scelto uno stile quasi poetico e paratattico, mentre Prati adotta più quello di un ‘mitologo’ premoderno.

Aspetto fondamentale del libro, in tutti e due i suoi contributi, è quello di ridare alla Roma preromulea, romulea e regia un volto ‘femminile’ che, soprattutto in taluni ambienti, non ultimo per colpa di un Evola (il quale commise macroscopici errori nella valutazione di talune dee e dei loro culti), è spesso misconosciuto o trascurato. E chi è capace di una lettura più in profondità non potrà non lodare l’intuizione di Valentina Ferranti relativa al ‘sistema’ della teologia femminile a Roma, ovvero che in fondo ci si trova di fronte ad un sistema di scatole cinesi, o forse sarebbe meglio dire ad una matrioska, in cui dietro ogni dea ne appare un’altra e poi un’altra ancora, rimandando ad un archetipo onnicomprensivo. Di Giacomo Maria Prati, sempre che si abbia la capacità di andare ‘in fondo’, si apprezzerà l’indicare apertis verbis una veritas assai poco scoperta e compresa, e che eviterò di dire pubblicamente (e pure privatamente). D’altro canto, ciò è conforme a quanto detto dalla Ferranti: “Si mostra a tratti Roma. Fa finta d’essere esposta allo sguardo ma trama nelle viscere infiniti segreti e tali debbono restare. Allora le si accarezza il dorso, chiedendole udienza. Attendendo che, in punta di piedi, ci riveli i misteri del tempo che fu e il mistero che ancora la copra”.

Gli argomenti trattati dagli Autori sono molteplici, e tendono a coprire buona parte dei miti e dei riti delle origini o relativi alle origini, ma non solo: dalla fondazione e dal nome arcano dell’Urbe ai sette talismani fatali che ne avrebbero garantito la fortuna, dai misteri di divinità femminili come Angerona, Bona Dea e Flora agli ‘interventi’ divini di Giano, Saturno, Fauno e Pico, ma pure – questione molto cara a Prati – di Hermes. Circa l’approccio dei due Autori, bisogna dire che se tra di loro vi sono parecchie consonanze, e trattano molti temi comuni con il particolare stile che però li distingue l’uno dall’altra (entrambi, anche se più marcatamente Prati, ad es. sottolineano, come anche il prefatore Graziani rileva, il continuo ricorrere di mitologhemi “duali”, “gemellari” [“Tutto è doppio a Roma e tutto verrà unificato mantenendo la duplicità” scrive la Ferranti] entrambi danno lodevolmente un ruolo importante al simbolo e al rito del ‘caprifico’, ecc.), nella Ferranti c’è un forte e pressoché univoco attaccamento alla realtà squisitamente romano-italica, laddove Prati mostra un forte radicamento nella dimensione del mito greco. La Roma di Prati è una Roma largamente “arcadica” e connessa con tutta l’area del Mediterraneo orientale. Nel che, soprattutto allorché ci si richiama al mito eneadico, non vi è nulla di sbagliato, ma personalmente sono più vicini all’opinione della Ferranti, la quale scrive che “l’Italia, Arcadia primordiale, influenzò la Grecia più di quanto pensiamo, e non viceversa”.

Nel libro si rileva purtroppo anche qualche errore, forse dovuto un po’ al ricorso alla memoria senza il controllo delle fonti. Viene ad esempio anche qui detto (come purtroppo ancora in molti manuali scolastici) che il lapis niger del Foro è il cippo con l’iscrizione di età regia, quando invece è la pavimentazione di marmo nero, o viene attribuita alle Vestali la custodia degli ancilia di Marte, che invece stavano nella Regia affidati ai Salii. Una seconda edizione del testo potrà emendare questi errori, così come quelli dovuti senza dubbio alla computerizzazione del testo: non ho il minimo dubbio che se la città di Lavinio figura sempre indicata come Lavinia la colpa sia dello stramaledetto correttore.

TI E’ PIACIUTO QUESTO ARTICOLO?
ACQUISTA O ABBONATI ALLA RIVISTA:

Ti potrebbe piacere anche

Lascia un Commento