Negli ultimi anni si è tentato di convincere l’opinione pubblica ad attribuire scarso valore alla privacy mentre, paradossalmente, sono proprio i magnati di Internet e i politici i primi a custodire gelosamente la propria intimità da occhi indiscreti. Il mantra che è stato sbandierato per anni suonava all’incirca come: “Se non hai nulla da nascondere non ti farai problemi a rinunciare alla tua privacy, solo chi ha commesso qualche reato avrà problemi a mostrarsi in tutto ciò che fa”. Peccato che – come osserva il premio Pulitzer Glenn Greenwald in ‘No place to hide’ – «la privacy è una condizione fondamentale dell’essere persone libere».
Prima complice il terrorismo, poi la pandemia, questo processo ha subìto una vera e propria accelerazione e si è innestato su quella forma di autoritarismo che, in modo paternalistico, finge di garantire ordine e sicurezza ai cittadini, in cambio della compressione della loro libertà e della loro privacy. Erosione dopo erosione, tassello dopo tassello, seguendo il principio della gradualità, si stanno avviando delle sperimentazioni sociali per tastare il terreno e capire in che modo poter non solo condizionare l’opinione pubblica ma soprattutto controllare e sorvegliare le masse. E fino a che punto ci si può spingere senza che la popolazione percepisca di essere sottoposta a manipolazione.
Oggi il rischio del terrorismo è stato sostituito da quello pandemico, ma il principio non cambia: i governi stanno adottando dispositivi che, sebbene basati sul biopotere e sulla biosicurezza, sono simili e, soprattutto, altrettanto invasivi e liberticidi. E si affacciano nuove minacce globali, da quella bellica a quella energetica. Ne deriva inoltre una forma di deresponsabilizzazione dei cittadini che, sottoposti a un bombardamento mediatico costante, basato sulla paura, scelgono di abbandonarsi a forme di rassicurante autoritarismo, pur di tornare a sentirsi ‘sicuri’.
Per portare avanti questo piano di controllo globale, si sfrutta la tecnologia, dando vita a un processo strisciante di sorveglianza tecnologica che in Occidente rischia di ricalcare il modello del credito sociale, un progetto pensato dal Partito Comunista cinese nel 2014 e che nel corso del tempo ha iniziato a trovare applicazione sperimentale in alcune località, con lo scopo di estendersi gradualmente a tutto il Paese. Ogni cittadino dovrebbe avere un rating, una sorta di punteggio assegnato dal Governo e regolato attraverso alcune informazioni ricavate dal comportamento di ogni singola persona: puntualità nei pagamenti delle tasse, processi pendenti, multe e sanzioni ricevute. Con l’ausilio delle piattaforme digitali, sarà anche possibile monitorare gli spostamenti e le abitudini quotidiane delle persone, i profili social e la cronologia di navigazione fatta dall’utente.
Possiamo immaginare come il controllo già capillare e pervasivo – pensiamo a telecamere, satelliti e ai cellulari che permettono di rintracciare chiunque ovunque si trovi e di profilare le persone – sarebbe completo: ogni cittadino sarebbe un ‘uomo di vetro’, trasparente, sotto costante sorveglianza. Lo sguardo elettronico del Governo lo seguirebbe in ogni attimo della sua esistenza in uno scenario orwelliano, anticipando e condizionando persino le sue abitudini, i suoi pensieri e le sue azioni. In questo modo, infatti, il Partito – proprio come il Socing di ‘1984’ di G. Orwell – potrà giudicare l’integrità del cittadino rispetto ai dettami e le regole imposte dal Governo stesso, punendo le devianze rispetto all’Ortodossia […]
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