Occhi che non guardano più occhi, mani che non toccano più mani. Interlocutori che non sono più interlocutori ma schermi, touchscreen: l’home page di Facebook, il feed di Instagram o “l’ultimo accesso” di WhatsApp. Il reale, soccombe al virtuale: sempre più a-social, sempre più dis-connessi. Nei tempi del free Wi-Fi rincorso, forsennatamente, come l’ultima figurina dell’album Panini (dei tempi d’oro, s’intende), essere online è fame d’affetto e affetto da fame. Ricordate la nostra gioventù? Quando gli unici social network erano i corridoi di scuola o l’ingresso del cinema? Il bigliettino, perentorio, del “Ti vuoi mettere con me?” con tanto di “Sì” o “No”, perfettamente incastonati in riquadri di carta, colmi di speranza e paura al contempo? Il massimo della trasgressione, poteva invece risultare il furtivo sms al Romeo o alla Giulietta di turno…

Il confronto coi tempi moderni è impietoso, sebbene inevitabile. E non è “anacronismo conservatore”, ma sana nostalgia mescolata ad un pizzico di pungente amarezza: la spontaneità è il dinosauro nella comunicazione d’oggi. Qualcosa di estinto o, comunque, in via di estinzione. Che si possa veicolare ciò che siamo è fuor di dubbio: ma i limiti oggettivi cui ci sottopongono i social, i facili equivoci e la totale mancanza di “tridimensionalità espressiva”, ci pongono difronte ad un paradosso indiscutibile. Oggi si comunica di più, certo: ma si comunica peggio. Proliferano app di messaggistica, siti web (che raggiungono l’apice massimo della mera carnalità col gettonatissimo OnlyFans) e si moltiplicano le piattaforme social (incantatrici, come eco di moderne sirene). Si scatenano guerre 2.0 persino circa l’utilizzo delle beffarde emoji (banalmente dette “faccine”): attendiamo sentenze di Cassazione che fughino ogni dubbio, circa il loro utilizzo.
IL “CONSUMO DEI SOCIAL” PUO’ NUOCERE GRAVEMENTE ALLA SALUTE
Certo, qui la provocazione c’è tutta. Ma se le sigarette incidono negativamente sul nostro stato di salute (fisica), non dimentichiamoci di quanto altre “dipendenze” o vizi possano gravare sull’altrettanto importante benessere psicologico: e questo è proprio il caso dei social network e della loro fruizione convulsa.
Tempi moderni portano problemi moderni, inquinano come sostanze tossiche rilasciate nel mare: i danni, spesso, non sono immediatamente visibili o quantificabili. Ma l’inquinamento (nel corpo, nella mente o in natura) è sempre il prodotto di innumerevoli addizioni: certa spazzatura (materiale e metaforica), si sedimenta provocando conseguenze inevitabili. La leggerezza (che crediamo erroneamente salutare e legittima) con la quale si “scrolla” Instagram o si spulcia WhatsApp, ci rende più vittime che carnefici: accediamo in quella “selva oscura” di Dantesca memoria, nella quale verremo ben presto (e più o meno consapevolmente) risucchiati.
DISTURBI ED OSSESSIONI: I DANNI CONCLAMATI DEL MONDO SOCIAL
Come il menu di un ristorante-bettola di infima qualità: un gran carico ed una lista ben nutrita di disturbi (in salsa di dipendenza), ossessioni (conditi da insicurezza) e psicologici disturbi (gratinati nel forno dell’individuale tristezza). Cose e casi finora sconosciuti che incupiscono il già fitto grigiore di questo cielo contemporaneo. Il tutto, diagnosticato e messo “nero su bianco” con tanto di lessico ad hoc: muniamoci dunque di vocabolario e di tanta, tanta attenzione. Phubbing non è il nome di una pietanza “made in UK”: l’assonanza col celebre pudding, potrebbe trarre facilmente in inganno. Ma col termine poc’anzi citato, si indicano tutte quelle relazioni (virtuali, platoniche), anteposte e preferite a quelle in presentia (di carne ed ossa): innegabilmente reali, pur nelle loro difficoltà. Una declinazione 2.0 dell’amore di lontano, certo non più romantico e nobile come ai tempi del Boccaccio. Il Dolce Stil Novo è, difatti, ricordo da soffitta: odora un po’ di naftalina. E del gettonatissimo narcisismo alla Rodolfo Valentino? Oggi, lo scorgiamo tra le alte e vorticose onde dell’Egosurfing. Lo sport preferito di chi ama “googlarsi”, inserendo il proprio nome nei motori di ricerca. Come se la conferma della propria esistenza, il conforto di sentirsi “qualcuno” e non “chiunque”, passi dagli esiti che producono le autoreferenziali ricerche. Il numero delle voci risultanti, come unità di misura della propria rilevanza: vanità nichilista, priva di ogni costrutto. Altro capitolo spinoso, come il fusto di una rosa difficile da maneggiare (pur sempre irresistibile da stringere) è quello dell’imperante analfabetismo affettivo. Autentica piaga sociale, come l’Hikikomori dei giovani giapponesi (di cui sempre su ‘Fuoco’ ho avuto modo di parlarvi in un precedente articolo): ragazzi relegati in una minuscola stanza ed isolati dal mondo (reale), autosabotano la propria vita affettiva in una, usurante solitudine. Come quella solo in apparenza placata e lenita da Facebook, Instagram e dintorni: le nuove mele luccicanti di Disneyana memoria. Mondi che fanno di noi dei numeri, dei followers, dei nickname: fughe repentine dalla realtà che confondono sempre più il finto dal vero, l’apparente dall’essenziale, il contenuto dal contenitore.
UN LINGUAGGIO CHE CI VUOLE ANALFABETI E FRAGILI
Le ferree regole dei social, gli ingannevoli itinerari cui sottopongono (maliziosi) i navigatori, mirano a spogliarci della nostra identità, insinuano persino il dubbio circa i nostri sentimenti. Tentazioni che esulano dalla vera Passione, dalla reale entità dell’Amore: queste impalcature fatte di pagine pubbliche e semplici account, sono le nuove sabbie mobili della nostra integrità (morale, personale, affettiva). Un mastodontico castello di sabbia, pronto a crollare da un momento all’altro e senza preavviso alcuno. Un castello accogliente ma solo “di facciata”, pronto a renderci emotivamente fragili, omologati, infelici. In una parola, analfabeti affettivi: incapaci di scindere la mela buona da quella cattiva, l’amore vero da quello effimero, la complicità extra sessuale dalla mera e sintetica attrazione fisica. Una semplice domanda andrebbe posta ad ogni singolo internauta: “E se adesso, all’improvviso, Instagram sparisse completamente dalla tua vita, quale volto vorresti ritrovare…in quale abbraccio ti vorresti rifugiare?”. Ecco, forse questa articolata domanda metterebbe ognuno nella scomoda posizione di riflettere sulle proprie relazioni, sulle vere priorità, sulla propria stessa vita. Perché il social network ed OnlyFans non sono la realtà: ma un’immensa trappola, ordita ad hoc, per rendere l’uomo moderno sempre più ebete ed arida vittima. Una fuga malsana dal proprio status quo: un modo assai infantile per eludere gli ostacoli dei rapporti, della vita, del puro quotidiano. Una bomba ad orologeria, pronta a far esplodere gli equilibri (pur precari) di una coppia. Il problema è la totale inconsapevolezza di tutto ciò: quel coltello che credi di poter maneggiare, sarà lo stesso che ti ferirà.

LA FUGA DA SÉ STESSI, LA RIMODULAZIONE DELLA PROPRIA REALTA’
L’agorà virtuale circoscritta in un post, spesso fa imbattere in quella tendenza tecnicamente chiamata Alessiteria: il “guardare fuori” e non dentro di sé. Un espediente ben diffuso, una sorta di tecnica terapeutica per scacciare pensieri e macigni emotivi. Ma eludere la metabolizzazione di un problema (vissuto, reale), ne determina la cronicizzazione. Una storia Instagram o semplice post sono quanto di più effimero possa esistere: la galletta di riso che credi possa placare la tua fame ma che, paradossalmente, ti apre ancor di più lo stomaco. Ma da aspetti vagamente Sturm und drang, si passa a quelli solo in apparenza più superficiali e frivoli. Ed ecco che spulciamo, in questo nuovo dizionario, il cosiddetto Lurking: la sindrome del guardone. Quel voyeurismo esasperato dalla selfie mania: la diffusione convulsa di immagini dall’alta densità materica, totalmente prive di qualsivoglia significato. Sbirciare, visualizzare ma senza commentare: essere quindi spettatori non intraprendenti, capovolgendo la tesi sostenuta da Sonia Livingstone nelle sue acute rilevazioni sociologiche. Il Lurker (lo spione mosso da malsana curiosità), tutto vede e tutto sa: sdraiato, comodamente, sul divano della propria latitanza. Ma il vero piatto forte, la specialità di questa ingannevole casa, senza dubbio alcuno è il cosiddetto narcisismo virtuale: l’ossessione di fare spettacolo senza spettacolo, di ergere il nichilismo più becero e banale a supremo oggetto del desiderio. Valzer scomposti e confusi da dirette e reiterati “contenuti”: la rappresentazione fallace di sé stessi quali personaggi pubblici alias Vip (con la patetica trafila dei commenti egoriferiti alla “Grazie a tutti!”). Una sovrabbondanza, insignificante, di esposizione dettata da esigenze di pura validazione altrui: “Io valgo quanti più like riesco a raggiungere”.
LA SOCIETA’ FLUIDA CHE CI RENDE SEMPRE PIU’ SCHIAVI
Anche di Zigmund Bauman ho avuto più volte il piacere di parlarvi: i 5 casi di derive psicologiche e relazionali di cui sopra, altro non sono che prodotti della già teorizzata società fluida. La semplificazione meschina introdotta dai social network è in antitesi con la reale dimensione affettiva. Ed era sempre Bauman a sostenere che la distruzione dei legami interpersonali, induca ad un consumismo materiale e, ancor peggio, sentimentale. Triste ma fedele ritratto dei tempi moderni: specchio impietoso di una società sempre più effimera: ancorata al “mandami una foto” piuttosto che ad un “parlami di te”. Sul mezzo utilizzato abbiamo ben poca voce in capitolo, ma sul messaggio da noi veicolato abbiamo totale controllo. E seguendo le parole dello scrittore Stefano Benni: “Se i tempi non chiedono la tua parte migliore, inventa altri tempi”. Facciamone tesoro ed impariamo a scindere il vero dal falso, l’importante dall’inutile, il radicato dal superficiale. Rendiamoci, quindi, inventori e non più vittime, complici o meri esecutori di tendenze imperanti: perché “Homo quisque faber ipse fortunae suae – Ogni uomo è artefice del proprio destino”. E anche sui social, nelle luccicanti vetrine 2.0, dovremmo ricordarci di tutto ciò. Più reale e meno virtuale, più volti e meno schermi, grazie!