(Natale di Roma) L’aumento divino del potere

da Elio Della Torre

Cinabro Edizioni ha da poco dato alle stampe l’ultima grande fatica di Mario Polia, il quale è tornato, a distanza di circa vent’anni, ad affrontare un tema centrale per la koiné culturale europea dal punto di vista romano: l’origine divina del potere. Nel denso saggio, l’autore esamina, minuziosamente e con le fonti alla mano, i simboli, gli oggetti fatali, le origini divine e i carismi del potere regale della Roma arcaica. Come dichiara lo stesso autore nella premessa che precede le quattrocento e più pagine della sua opera, dalla pubblicazione di ‘Imperium. Origine e funzione del potere regale nella Roma arcaica’ (Rimini 2001) hanno visto luce importanti scoperte archeologiche, sono stati pubblicati nuovi studi e, per quanto riguarda l’autore, nuove intuizioni hanno dischiuso nuove prospettive di indagine. Polia, con ‘Reges Augures. Il sacerdozio regale nella Roma delle origini’ (Roma 2021), è tornato così a dedicarsi allo studio di un tema di primaria importanza per la tradizione romana e la storia d’Europa.

Dalla Roma delle origini, dove il potere regale riceveva l’aumento divino attraverso l’auctoritas conferita da Giove, alla Roma cristiana, dove, d’accordo col principio tramandato da San Paolo, «non vi è potere se non da Dio», tale nozione di potere, inteso come elargizione divina alla persona che lo detiene, rimase inalterata nella sostanza per un lungo corso di secoli. Tale continuità tra la Roma arcaica e la Roma cristiana è metafisicamente testimoniata dalle meditazioni di Guido De Giorgio (‘La Tradizione romana’, Roma 1973) e storicamente fondata sulle ricerche di Pietro de Francisci (‘Arcana imperii’, Roma 1970). 

Lo studio di Polia si colloca nel solco tracciato da questi studiosi e si concentra sul principium di tale tradizione, cioè sulla sua origine, che non può altro che risiedere nella Roma delle origini. D’altra parte, come affermò il giurista romano d’età imperiale Gaio, poiché è perfetto solo ciò che consta di tutte le sue parti, nell’esame di ogni cosa è preferibile riferirsi preliminarmente al suo principio, che, appunto, di ogni cosa è la «parte più potente» («potissima pars»).

Analogamente, per entrare nel merito dell’oggetto dello studio di Polia, come Roma è la «parte più potente» della tradizione perché ne rappresenta l’origine, così a Roma gli dèi, nei libri custoditi dal collegio sacerdotale degli auguri che erano gli interpreti e i garanti di ogni «aumento divino», sono definiti come «potenti» perché è da essi che traggono origine tutti i poteri («divi potes»). 

Per restare al periodo più arcaico della tradizione romana, Giulio Cesare affermava che la sua stirpe discendeva dalla «sacralità dei re che tanto potere avevano sugli uomini» e dalla «santità degli dèi che tanto potere avevano sugli stessi re». Infatti, il primo re, Romolo, era lui stesso «augure perfetto» e a partire dal secondo re, Numa Pompilio, era invece l’augure a «inaugurare» il rex. Si affermò così il principio per cui ogni potere umano, per essere legittimo, doveva rinnovare questo legame con la divinità, attraverso la ricezione di un «aumento divino» garantito, per l’età regia, dall’inaugurazione dei re da parte degli auguri. 

Anche quando in età repubblicana si scisse l’origine divina del potere dal suo fondamento popolare e si affermò, quindi, il principio per cui tutti i poteri dei magistrati trovavano fondamento nel popolo che li eleggeva, chi deteneva il potere non poteva esercitarlo senza prendere preventivamente gli auspici al fine di interpretare la volontà degli dèi, di cui gli auguri erano, ad ogni modo, gli interpreti finali. Con l’avvento della res publica e la fine del regnum, infatti, l’unità primigenia tra auctoritas e imperium, che vedeva riunificati nel rex il potere aumentato dall’autorità di Giove, si divise senza però rompersi del tutto. Si affermò che il fondamento del potere dei magistrati era nel popolo ma senza negare che l’origine del potere stesso risiedesse nella divinità. Agli albori dell’ordinamento repubblicano e all’indomani della cacciata dei re è, infatti, da collocare la dedica del tempio a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio da parte di uno dei primi consoli, Marco Orazio Pulvillo: la dedica assunse il significato di una speciale protezione per la repubblica.

All’indomani dell’instaurazione dell’ordine repubblicano, al rex, il quale, una volta svuotato dell’imperium passato nelle mani dei magistrati, prese il nome di rex sacrorum, vennero conservate le sole prerogative sacerdotali. Nacque una distinzione tra sacerdotium e imperium che si sarebbe protratta almeno fino alla tarda età imperiale. Ma, parafrasando il Guénon di ‘Autorità spirituale e potere temporale’, questa distinzione non divenne mai una separazione e il potere di governare le cose umane (magistratus) e l’autorità di reggere le cose divine (sacerdotes) restarono in perfetta armonia tra loro sino alla rinuncia del Pontificato Massimo da parte dell’imperatore Graziano alla fine del IV sec. d.C. La distinzione – e non separazione – tra sacerdoti e magistrati nella Roma repubblicana si rinnovò, infatti, con l’assunzione da parte degli imperatori, a cominciare da Augusto, del pontificatus maximus. Ci ricorda Polia, citando Ovidio, che «tutto ciò che Giove accresceva col suo potere» era detto, appunto, «augusto». Alla rottura dell’armonia tra sacerdotium e imperium, dovuta alla grande rinuncia dell’imperatore Graziano, cercò di rimediare l’imperatore Giustiniano nella prima metà del VI sec. d.C. con il riconoscimento, almeno concettuale, della comune origine divina di sacerdotium e imperium tra i quali, «derivando entrambi da uno stesso Principio», doveva vigere l’assoluta «armonia». 

La comune origine di sacerdotium e imperium si riscontra anche in un confronto tra il fondamento dei poteri dei magistrati e quello dei sacerdoti in età repubblicana. Innanzitutto, il diritto pubblico romano, edificato nel corso dei secoli a cavallo delle tre forme costituzionali del regnum, della res publica e del principatus, era considerato tripartito in sacra, sacerdotes e magistratus: precetti e istituti ruotavano tutti attorno ai due poli del sacerdozio e della magistratura, con netta preponderanza dell’elemento divino su quello umano, in ragione del fatto che due terzi del diritto pubblico riguardavano le cose divine. 

Le interazioni armoniose tra i due poli del diritto pubblico mostrano chiaramente la loro comune origine divina sebbene il fondamento sia diverso (umano per i magistrati, divino per i sacerdoti). Come i magistrati per esercitare il potere – fondato sull’elezione da parte del populus – dovevano compiere gli auspicia, ad esempio, prima di riunire il popolo, così i sacerdotes – la cui autorità trovava fondamento nella divinità – interagivano continuamente con il potere, ad esempio, presiedendo ad alcune assemblee popolari. Inoltre le stesse persone potevano gerire in armonia tanto il potere dei magistrati quanto l’autorità dei sacerdoti contemporaneamente. Cicerone nel ‘De domo sua’ affermava che «tra le molte istituzioni che dai nostri antenati divinamente sono state ideate e introdotte, nessuna, o pontefici, è più bella dell’aver disposto che le stesse persone presiedessero sia al culto degli dèi immortali sia al governo della repubblica»: insomma, consoli che erano anche pontefici, dittatori che erano anche auguri, pretori che erano anche flamini.

Ma, mentre per i magistrati si affermò il principio per cui il potere trovava fondamento nel popolo, per i sacerdoti, anche quando si cercò in tutti i modi di travolgerli dal principio elettorale, non si negò mai il principio del fondamento dei loro poteri nella divinità, tanto che la massima giuridica per cui «il popolo non poteva attribuire sacerdozi a causa della religione», tramandato da Cicerone nel ‘De lege agraria’, non venne contraddetta dall’estensione del principio elettorale anche ai sacerdozi, innanzitutto perché si ritenne sempre necessaria la cooptazione del novizio da parte del collegio sacerdotale anche a seguito dell’elezione da parte del popolo.

Infine, ai sacerdoti furono sempre riconosciuti poteri, di cui furono un’esplicazione i molteplici comandi che avevano il diritto di rivolgere al popolo seppur tali comandi non trovassero fondamento nel popolo. Esemplarmente Cicerone, nel ‘De domo sua’, aveva affermato che «i pontefici si erano sempre dedicati non solo alle proprie cerimonie ma anche ai comandi del popolo» e, nel ‘De officiis’, aveva ricordato l’episodio paradigmatico di «quando gli auguri, per esempio, volendo prendere gli augurii sul Campidoglio, ordinarono a Tiberio Claudio Centumalo di demolire quella parte della casa sul monte Celio, che nuoceva con la sua altezza all’osservazione del cielo».

Letture come quella di Reges Augures ci ricordano di un mondo fatto di uomini e dèi, magistrati e sacerdoti, poteri umani e poteri divini. Per dirla con Cicerone, ci riportano a «quel mondo intero che è una comune città di dèi e uomini».

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