L’Irlanda che non smette di ruggire

da Marco Scatarzi

Il bagliore di un fuoco al centro della strada, comparso come un fantasma dopo una curva a gomito, ci costringe a una frenata improvvisa. L’odore acre dei bidoni in fiamme si mescola al sapore forte della Guinness che sorseggio, lasciandomi in bocca il sapore dell’Irlanda più autentica, quella che avevo letto sui libri e trascritto nei volantini. Un giovane incappucciato ci scruta con sospetto, si avvicina alla macchina e ci fa cenno di passare: «you are now entering free Derry». Il Bogside ci accoglie così, nel rude splendore delle barricate improvvisate e delle sentinelle appostate, con le tinte forti dei suoi murales e il suo carattere ribelle. Siamo nell’agosto del 2005 e i troubles sono finiti da un pezzo, lasciandosi alle spalle infinite storie di morte, di sofferenza e di prigionia, ma anche lucidissimi scorci di coraggio, di abnegazione e d’amore. Gli anni del conflitto sono un ricordo sbiadito, mentre il ruggito della lotta armata ha lasciato il posto agli accordi di pace e alla vita istituzionale. Eppure, nelle strade dell’Irlanda del Nord, la tensione è ancora alle stelle: l’IRA ha ufficialmente deposto le armi, consegnando alle autorità britanniche una cospicua parte del proprio arsenale in cambio della liberazione di alcuni prigionieri politici.

L’accordo – di portata storica – non è affatto piaciuto ai lealisti, che gridano vendetta e attaccano la polizia, costringendo i repubblicani a presidiare il territorio come negli anni più duri. Da quella torrida estate di cariche e di scontri, inevitabilmente, il mondo è cambiato: le guerre dell’imperialismo americano sono finite, il Medio Oriente ha conosciuto il baratro della destabilizzazione e del terrorismo, la Cina è diventata una potenza planetaria, il capitalismo si è rafforzato una crisi alla volta e il piccolo Nord Irlanda ha continuato ad offrire – cocciuto e ostinato – dei nuovi casus belli alle cronache internazionali. Quel fazzoletto di terra – infatti – continua a rappresentare un focolaio nel cuore d’Europa: i mesi che precedono e che accompagnano l’uscita di questo numero di ‘Fuoco’, densi di anniversari da rammentare e analizzare, ci aiutano a capire perché. Nell’autunno del 1921, esattamente un secolo fa, il Parlamento inglese si apprestava a riconoscere lo Stato libero d’Irlanda, seppur sottoposto all’iniziale dominio britannico e privato delle sei contee del Nord: era la logica prosecuzione della guerra anglo-irlandese iniziata con la Rivolta di Pasqua del 1916 e proseguita per altri quattro anni attraverso un’efficace e sfiancante guerriglia messa in campo da quello che passerà alla storia come l”Irish Repubblican Army’. Il Trattato del 1921, siglato dal comandante Michael Collins e rifiutato da Éamon de Valera, porterà alla guerra civile e alla sconfitta di quest’ultimo, che – nonostante ciò – diventerà uno dei padri della Repubblica Irlandese e ne guiderà il consolidamento politico e istituzionale. Malgrado il sostanziale successo dei patrioti irlandesi, passati dallo stato di totale subalternità verso la corona britannica alla creazione di una propria Repubblica parlamentare, la divisione dell’isola restava una ferita aperta. Negli anni Sessanta, complice l’emulazione del movimentismo nero negli Stati Uniti, i cattolici irlandesi dell’Ulster decisero di organizzare la protesta e attirare i riflettori dell’Occidente sulle sei contee del Nord. I motivi per scendere in piazza, del resto, non mancavano: le autorità avevano attuato un settarismo di Stato che relegava i cattolici a cittadini di seconda categoria, privati dei più elementari diritti, costretti a vivere in baraccopoli fatiscenti e prive di servizi, abbandonati letteralmente alla disoccupazione e al degrado sociale. Era l’onda lunga di una prassi discriminatoria che aveva alimentato le scelte della corona britannica nei secoli precedenti: le cronache ottocentesche – facilmente consultabili – narrano delle migliaia di irlandesi deportati come schiavi nelle Americhe, comprati e sfruttati dalle compagnie inglesi come fossero carne da macello. La colonizzazione della verde isola, infatti, è uno dei più lucidi esempi di ferocia che la storia moderna e contemporanea abbiano conosciuto: legislazioni appositamente pensate per emarginare gli autoctoni, pogrom e persecuzioni religiose di massa, carestie indotte o alimentate ad arte, imposizioni linguistiche e abolizione del gaelico, plantation di cittadini protestanti per attuare la sostituzione di popolo, controllo e repressione preventiva di ogni forma di ribellione. Tra gli anni Sessanta e Settanta, nei sobborghi di Belfast e Derry, la situazione non era affatto migliore: il gerrymandering – sistema elettorale per costruire collegi che restituissero sempre una maggioranza protestante e lealista al Parlamento di Stormont – escludeva i cattolici dalla vita politica del Paese; l’internamento senza processo, attuato con ferrea e spietata precisione, trasformò le prigioni britanniche in veri e propri laboratori mondiali di tortura, terrorizzando la popolazione e trasformando il dissenso in odio radicato; la violenza lealista, messa in atto con la connivenza della polizia, raggiunse l’apice nel rogo sistematico dei rioni cattolici e nell’intransigenza paramilitare dell’orangismo militante. Dinanzi a tutto questo, comunque, la prima ondata di proteste si materializzò nella creazione della ‘Northern Ireland Civil Rights Association’, che inaugurò una serie di marce pacifiche per sensibilizzare i media e le autorità politiche. La più celebre, divenuta il simbolo stesso dell’oppressione britannica, finì in tragedia: il 30 gennaio del 1972, in un clima surreale, un lunghissimo corteo si snodò per le strade di Derry, scandendo slogan e rivendicando una piattaforma di proposte politiche tese al riconoscimento dei diritti fondamentali […]

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