Geopolitica del cibo tra hamburger e cavallette

da Daniele Perra

Nella sua ‘Vita di Apollonio di Tiana’, Filostrato di Lemno racconta di come colui che venne definito alla stregua di ‘Dio tra gli uomini’, dopo aver incontrato in gioventù le dottrine pitagoriche, iniziò a vestirsi di solo lino (tessuto ritenuto tra le cose più sacre e pure) e ad astenersi dal consumo di carne e bevande alcoliche. Lo stesso Apollonio, in una delle sue epistole, elenca i grandi vantaggi che si possono ottenere dal frequentare un maestro pitagorico: «l’arte del legislatore, la geometria, l’astronomia, l’aritmetica, la musica, la medicina, una completa scienza divinatoria». A esse, inoltre, si aggiungono quelle che il Tianeo definisce le ‘cose più belle’: «la conoscenza degli dèi, l’autosufficienza, la perseveranza, la frugalità, la riduzione dei bisogni, la facilità di respirazione, il bel colorito, la buona salute, il coraggio, l’immortalità».

Simili concezioni, incentrate sulla misura come virtù ideale, si ritrovano in tutte le civiltà e le culture che si sono storicamente diffuse sul continente eurasiatico. Non sorprende, in questo senso, il fatto che ad Apollonio sia attribuito anche un lungo viaggio in Oriente, nell’Altopiano iranico ed in India, durante il quale, alla pari di Pitagora, ebbe modo di confrontarsi con i sapienti di quelle regioni.

Il ricorso alla citazione di un maestro pitagorico (e al concetto di ‘misura’) per aprire il discorso sulla cosiddetta ‘geopolitica del cibo’ non è casuale. Oggi, infatti, soprattutto nell”Occidente’ egemonizzato dalla ‘cultura’ nordamericana, si vive in una condizione di totale dimenticanza della misura e di svilimento della natura umana al mero appetito (sia esso per i non necessari prodotti della tecnica, sia per il necessario nutrimento).

Apollonio ci parla di ‘frugalità’ e ‘riduzione dei bisogni’ come pratiche che garantiscono la buona salute. Osservando i dati raccolti dall’Università di Oxford tra il 1975 e il 2016 si riscontra che il tasso di obesità nei Paesi occidentali si è più che raddoppiato. In Europa e Nord America si è passati dall’8,4% al 27,7%. Nello specifico, in Italia si è passati dall’8,4% al 19,9%; in Germania dal 9% al 22,3%; negli Stati Uniti dall’11,9% al 36,2%. Difficile non leggere questi dati alla luce della crescente diffusione in questa area del mondo del diabete e di malattie cardiovascolari con i loro diretti effetti nefasti su una sanità pubblica già ampiamente martoriata da decenni di tagli determinati dal dominio nel discorso politico e nella pratica economica delle dottrine neoliberiste. Non meraviglia inoltre il fatto che la responsabilità per questo tipo di situazione, come avviene oggi per la diffusione dei contagi da coronavirus, sia stata scaricata sui consumatori e non su di un sistema malato fino alla radice in cui la Coca Cola spende in pubblicità il doppio dei fondi a disposizione della pur assai ambigua Organizzazione Mondiale della Sanità. È altresì difficile non leggere questi dati alla luce del culto occidentale per la dismisura (alla cultura consumistica votata allo spreco), alla diffusione del cibo spazzatura in tutte le sue forme (lo stesso veganesimo incentrato sul consumo di cibi ultra-lavorati a base di soia, o su monocolture intensive ed insostenibili come l’avocado, rientra di diritto in questa categoria), alla diffusione delle catene multinazionali di fast food, allo stile di vita sedentario e alla riduzione drastica dell’occupazione nelle attività primarie che legano l’uomo alla terra saldandolo a essa da un vincolo spirituale. Fu Walther Darré a indicare nei contadini la fonte della vita per ciascun popolo. E fu il suo maestro Werner Sombart a individuare nel capitalismo (al quale diede una definizione ben più esplicita di quella marxista), nell’urbanizzazione e nella tecnica che domina i ritmi dell’uomo, la fonte di un’alienazione che scardina la stessa natura umana dal suo ordine simbolico per inserirlo in un mondo macchinale in cui il legame con la terra e i suoi prodotti viene negato.

Non sorprende che la geopolitica del cibo, e con essa il principio di sovranità alimentare e di difesa alimentare, siano intrinsecamente legati con un altro fenomeno tipicamente contemporaneo: i flussi migratori incontrollati trasformati in strumenti di scontro geopolitico. A questo proposito, non si può dimenticare l’emblematico testo della scienziata politica nordamericana (e consigliera di John Kerry) Kelly M. Greenhill ‘Weapons of mass migration: forced displacement, coercion and foreign policy (Cornell University Press 2011) dove si parla espressamente di «movimenti di popolazioni transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di estorcere concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira». L’Italia dovrebbe saperne qualcosa vista la guerra ibrida alla quale è stata sottoposta con l’aggressione NATO alla Libia di cui, con istinto suicida, si è resa complice. (Va da sé che la stessa Italia, a causa dell’insipienza dei governi che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni, è stata incapace di sfruttare e difendere la propria eccellente filiera agroalimentare proprio come strumento di geopolitica alimentare) […]

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