Fenomenologia del postumano. Dalla morte di Dio al Devoto-Oli

da Redazione

«Innamorarsi equivale a dare vita a un Dio che è fallibile». Lo scrittore argentino Jorge Louis Borges, in Nove saggi danteschi, definiva così uno dei processi più misteriosi e affascinanti della nostra vita: quello per cui ci rendiamo deliberatamente inconsapevoli della piccolezza intrinseca nella natura umana della persona amata, che siamo portati a deificare. Sublime errore, potremmo dire. Ben diverso, eppure per certi versi – quelli negativi – simile all’innamoramento, è stato, è e purtroppo sempre di più sarà il Progresso. Nessuna definizione potrebbe calzargli meglio di «dio fallibile» a cui noi abbiamo dato vita.

Il mito del progresso nasce nel momento il cui il Mito in sé stesso – chiamiamolo pure Dio – muore, o inizia a morire. Come ci ricorda Nietzsche (in Ecce homo), la notizia della morte di Dio all’inizio viene accolta con risa sempliciotte e battutine. E così, del resto, è avvenuto. Dio è morto fra le grida entusiaste di quello che a scuola ci hanno insegnato a chiamare «ottimismo illuminista»: nient’altro che l’uomo che ridacchia di essere riuscito a schiacciare Dio coi suoi mezzucci logici. Deo morto, dunque, nasce l’esigenza del «mito del Progresso» come sostituzione del Mito: e se oggetto di quest’ultimo erano gli Dei, ora questi sono sostituiti dal Progresso stesso e dalla Tecnica. Tecnica che è anch’essa un «dio fallibile» che abbiamo creato ritenendolo infallibile. E così è finita che l’Eden dei primordi l’abbiamo negato, che ne abbiamo dimostrato l’infondatezza scientifica; e che però, dato che di Eden sentiamo il bisogno, andiamo assicurandoci l’un l’altro che sarà nel futuro e che sarà prodotto dalla Τecnica, dal Progresso: da noi. È finita che, stufi di sentirci sottomessi a un Dio da venerare, ci ritroviamo inchinati dinnanzi al (fallibile) dio Progresso, che proprio come l’Amore di Platone, è continuo divenire, costante ricerca di ciò che non possiede ancora: insomma è inutile e insensato proprio come Dio old school. E proprio la natura del Progresso – il progredire ricercato per sé stesso – era stato messo a fuoco persino dal Compagnuccio: persino Marx, pur approdando poi a soluzioni a dir poco aberranti, nel suo Manifesto afferma: «la borghesia [si dica la Tecnica o il Progresso] non può esistere senza rivoluzionare continuamente i modi di produzione, i rapporti di produzione, tutti i rapporti sociali insomma».

Abbracciando il progresso e il suo mito, entusiasti di liberarci dalle cosiddette «oppressioni», della Tradizione, abbiamo sostanzialmente barattato l’Aldilà eterno per dieci anni di aldiqua in un letto sempre più attrezzato. E – attenzione attenzione – fra vent’anni, magari, gli anni da vivere in quel letto attrezzato potranno essere venti! E il problema è che, quantomeno a livello superficiale, sembriamo soddisfatti di questo stato di cose. Il moderno – per meglio circoscrivere un «noi» collettivo che per fortuna risulta esagerato –, ora non si sente oppresso dal nuovo inflessibile dio Progresso. Anzi, ce l’ha costantemente in bocca, ne tesse costantemente le lodi e procede a tempestive reprimende nei confronti di quanti lo bestemmiano od osano nominarlo invano. Accendete la tivù e troverete una religiosità più fervente di quella dei chierici duecenteschi. Una religiosità che tuttavia pretende non essere tale. Di essere superiore. Di essere esatta. E pretende questo poiché ha dimostrato di essere riuscita, a partire dall’uomo, a creare un Dio, anzi due Dei: Progresso e Tecnica (così vuole il meccanismo delle quote rosa). Una religiosità che ha dimostrato, insomma, che l’uomo è Dio esso stesso; anzi: che l’ha superato. E se l’essenza della «religione del Progresso» è appunto di superare tutto e tutti, il rischio – anzi: la certezza – è che essa, non contenta di aver superato Dio, decida di superare l’uomo. Perché l’uomo, come è noto, è imperfetto sotto ogni punto di vista. E se per il Tradizionale questo limite (sacer limen) è garanzia di un Oltre a cui egli è necessariamente e felicemente estraneo, per il moderno, come d’abitudine, è un ostacolo da abbattere. E nella fattispecie sto parlando di quella corrente «filosofica» destinata a rappresentare il sistema «valoriale» a «fondamento» del mondo che (speriamo non) verrà. Sto parlando del postumanesimo.

Postumanesimo: mentre lo scrivo mi appare sottolineato in rosso (il contrassegno che una parola non è attestata nel lessico in Word e altri programmi di scrittura, ndr), ma credo sia un problema di aggiornamento del mio programma di scrittura: è di pochi giorni fa la notizia che lo storico dizionario della lingua italiana Devoto-Oli ha accolto, insieme a una sfilza di barbarismi a sfondo sanitario che dovrebbero farci riflettere – ma non è questa la sede –, il lemma «postumano». Postumano. Aggettivo qualificativo. Né più né meno di «bello» o «interessante». Il mio sconcerto è, ancora una volta, relativo tanto al fatto in sé quanto ai (non) commenti dei «professionisti dell’informazione» e degli «intellettuali». Vi invito a fare una ricerca sul Web: «postumano Devoto Oli» o «postumano dizionario»: troverete solo qualche pezzo a carattere informativo che annovera il nuovo lemma in una lista ben più ampia. È ancora peggio della folla che ride all’annuncio della morte di Dio: è l’uomo indifferente alla morte dell’uomo. (Trascuro un articolo del giornale dei pretonzoli titolato «Transumano e postumano purché resti umano»: indice del disastro perpetrato da Giovanni XXIII con l’abolizione del latino ecclesiastico). Perché il postumanesimo è questo. È una «corrente di pensiero attenta al rapporto tra l’uomo e la tecnica nel tentativo di ripensare la natura stessa dell’essere umano in relazione all’ambiente che lo circonda secondo una visione ibridativa» (Treccani). E il fatto che il nostro lessico abbia accolto con serenità un aggettivo come «postumano» è a dir poco epocale. L’inserzione nel vocabolario di queste nove lettere è un mutamento linguistico non inferiore al collasso del latino in favore delle lingue romanze. In questo caso si passava da homo a «uomo»; ora, da «uomo» a cosa si passerà?

Questo è un interrogativo complesso e preoccupante. Ed è chiaro che non posso fare previsioni per l’avvenire, come nessuno credo possa. Tutto il mio ottimismo deriva dal sorriso che riesce a strapparmi una delle maggiori esponenti della corrente postumana, la filosofa Rosa Braidotti, la quale parla costantemente di «femminismo postumano»: evidente ossimoro che lascia accesa la speranza che l’Avversario sia poco cosciente delle parole che ha in bocca (e che testimonia ancora una volta un problema con il latino). In assenza di risposte, giova comunque richiamare l’importanza di improntare la propria resistenza al mondo moderno in maniera tradizionale, senza mai scendere al livello meschino della modernità. Noi non dobbiamo chiedere al progresso, alla Tecnica, di fabbricarsi da sola la corda con cui impiccarsi e superarsi (cito liberamente Lenin). Noi dobbiamo fare la contro-rivoluzione (e usiamola questa parola!), che, come ricorda De Maistre, non è una rivoluzione di senso contrario, ma il contrario della rivoluzione. Qui sta la nostra salvezza: nel non cedere al vortice autodistruttivo del progresso, nel non smettere di leggere e amare le Metamorfosi per guardare il bollettino dei contagi o perché qualcuno ci dirà che sono «sessiste». Nel non smettere di essere umani.

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