Da Malthus ai Rockefeller: il lato oscuro della ‘sostenibilità’

da Cristiano Puglisi

‘Sviluppo sostenibile’, ‘agricoltura sostenibile’, ‘turismo sostenibile’, ‘bilanci sostenibili’: oggi il mondo economico e industriale non sembra parlare d’altro che di sostenibilità. Tanto che, a uno sguardo superficiale, questa sembra davvero essere divenuta uno dei valori chiave delle multinazionali e dei grandi nomi dell’economia globale. Certo, il marketing aziendale, con la consueta dose di cinismo, deve pur uniformarsi a quelle che sono le principali tendenze sociali anche nell’era di Greta Thunberg e dei Fridays for future. Ma, nel caso della sostenibilità, sembra esserci qualcosa di più. Prima di tutto, però, bisognerebbe cercare di capire cosa significhi questo concetto.

Torna utile, come per le più classiche ricerche scolastiche, l’enciclopedia Treccani, che, alla voce ‘sostenibilità’, presenta la seguente definizione: «Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». «Il concetto – prosegue la voce – è stato introdotto nel corso della prima conferenza ONU sull’ambiente nel 1972, anche se soltanto nel 1987, con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland, venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso». Appare subito chiaro come il termine sia carico di connotati più politici che scientifici. Anche perché la sua introduzione si deve, di fatto, a un organo politico. Anzi, al più importante di tutti: le Nazioni Unite. Un organismo nato nel 1945 che, per quanto abbia apparentemente lo scopo di garantire la pratica del multilateralismo nelle relazioni internazionali, nacque in realtà, lungi da una reale equidistanza dagli interessi delle varie potenze del mondo, per preservare l’ordine emerso dalle macerie della Seconda guerra mondiale, vale a dire l’ordine mondiale liberale di impronta mondialista caratterizzato dall’egemonia del capitalismo anglo-statunitense. Le relazioni delle élite atlantiche con l’ONU e, precedentemente, con la progenitrice Società delle Nazioni sono del resto certificate dalla storia: tra le realtà che svolsero un ruolo attivo nella transizione dalla seconda (nata nel 1919) alla prima vi fu, per fare un esempio, la Fondazione Rockefeller, legata all’omonima e storica famiglia di petrolieri e finanzieri e nota per il suo supporto proprio alla causa mondialista (ma anche per la filantropia in campo sanitario che portò alla creazione, già nel 1927, dell’IHD – International Health Division, antesignano dell’OMS). Lo fece, in particolar modo, negli anni tra il 1939 e la fine della guerra, con ingenti finanziamenti verso due organizzazioni: il Dipartimento economico, finanziario e di transito (EFTD) della Società delle Nazioni e la United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA). Anche il terreno su cui sorge il Palazzo di Vetro di New York, sede dell’ONU, fu donato dai Rockefeller. Perché questa digressione? Semplicemente perché, quando un’entità, di qualunque tipo, promuove intensivamente un concetto, non bisognerebbe mai dimenticare di analizzare quali siano gli orientamenti del promotore. Se poi lo stesso concetto è reiterato da diverse realtà assimilabili a uno stesso campo ideologico, a maggior ragione. E l’ONU, infatti e come noto, non è la sola organizzazione di carattere mondialista ad avere a cuore lo sviluppo sostenibile: tra questi, per citare un esempio, anche il Club di Roma. Cosa lega queste realtà all’attenzione verso l’ambiente? L’analista geopolitico F. William Engdahl, in un articolo pubblicato per il ‘New Eastern Outlook’ il 16 ottobre 2018, ha proposto al riguardo una sua teoria. Il cui protagonista assoluto è, casualmente, un cognome già incontrato: Rockefeller. «Il cosiddetto ‘cambiamento climatico’ […] – scrive Engdahl – è un programma di deindustrializzazione neo-malthusiano (orientato cioè a una riduzione della popolazione globale conciliabile con il pensiero dell’economista britannico Thomas Malthus (vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, nda), originariamente sviluppato nei primi anni Settanta da circoli vicini alla famiglia Rockefeller, per impedire l’ascesa di industriali indipendenti rivali». La stessa famiglia che, ricorda l’autore, ha «anche sostenuto la creazione del Club di Roma, dell’Aspen Institute, del Worldwatch Institute e del report del MIT intitolato ‘Limiti alla crescita’». Non solo, ma «uno dei principali organizzatori del programma di crescita zero fu un amico di lunga data di David Rockefeller, un petroliere canadese chiamato Maurice Strong. […] Quale presidente della conferenza ONU di Stoccolma del 1972 […], Strong promosse un’agenda di riduzione della popolazione e degli standard di vita, per ‘salvare l’ambiente’». Si sta parlando della medesima conferenza in cui fu coniato il concetto di ‘sostenibilità’ come correntemente inteso […]

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