La scomparsa del lavoro

da Enzo Iurato

Qualcuno (Abdul-Hâdi) ha affermato che «niente riflette meglio la ‘Tradizione primordiale’ dell’etimologia», anche in ragione dei processi associativi spontanei che la caratterizzano. Ed è proprio ricorrendo all’etimologia che possiamo ricavare una definizione sufficientemente veritiera del termine ‘lavoro’: dal latino labor, labi, labare (‘scivolare’, ‘vacillare sotto il peso’) per indicare chi, per la fatica, è curvo e si dedica a un’occupazione retribuita. Definizione che rimanda direttamente alla ‘condanna biblica’ che ne ha caratterizzato negativamente l’idea, considerando il lavoro come punizione e mezzo attraverso il quale espiare una colpa. Comprendendo tuttavia il termine ogni attività materiale e spirituale dell’uomo, la sua colorazione sfavorevole viene sfumata e riscattata dalle seguenti parole di Dante nel ‘Convivio’: «ciascuno buono fabricatore, ne la fine del suo lavoro, quello nobilitare e abbellire dee in quanto puote»; che apre a ben diverse prospettive – anche rimanendo solo nel dominio dell’individualità – evidenziando la sua funzione catartica (che conserva e accresce la dignità di colui che lo svolge, considerato che «il lavoro elimina la noia, il vizio e il bisogno») e rivestendolo di significati legati all’arte e alla creazione umana, a imitazione del Creatore unico.

Va infatti ricordato che, originariamente, l’esercitare una determinata arte o un determinato mestiere consisteva nel seguire la propria vocazione o chiamata, compiendo la missione assegnata a ognuno e attingendo alle potenzialità inscritte nella natura profonda del suo essere. E non a caso vi sono tradizioni che affermano che i mestieri necessari alla vita di una città sono 32 – non uno di più né uno di meno! – essendo il numero 32 in rapporto con le trentadue membra che costituiscono il corpo umano. Garantendo l’osservanza delle regole, dei rituali e della devozione al santo protettore di quel mestiere il benessere per la propria famiglia e la felicità terrena e ultraterrena, nonché la protezione dalle avversità e dalle maldicenze dei concorrenti invidiosi (quello che popolarmente viene definito il ‘malocchio’), veniva steso un invisibile velo difensivo sull’esistenza dell’artigiano e del lavoratore fedele, grazie all’influenza del mondo sottile sulla realtà materiale.

Così il lavoro, svolto in virtù e in accordo con le conoscenze e abilità derivanti da Dio e le influenze spirituali corrispondenti, nel momento in cui garantiva quanto è necessario per alimentare il corpo, favoriva al contempo la propria crescita interiore. Anche il semplice farsi il segno della croce o il recitare una determinata preghiera prima di intraprendere un’attività qualsiasi, serviva a indirizzare in una precisa direzione il frutto e l’esito di quella ‘fatica’. Ma non si pensi che tutti i mestieri moderni, per essere sorti successivamente a epoche in cui il legame coi principi tradizionali era diretto, siano solo per questo automaticamente desacralizzati, perché molti di essi sono stati ‘presi in carico’ dalla tradizione secondo la legge d’analogia; per cui la stessa Chiesa cattolica, quando ancora svolgeva pienamente il suo ruolo di religione ufficiale dell’Occidente, ha provveduto a ricollegare ognuna delle professioni prima sconosciute a un proprio santo patrono […]

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