Tra le innumerevoli immagini della manifestazione del 9 ottobre a Roma – dove decine di migliaia di cittadini hanno pacificamente protestato contro le misure liberticide adottate dal governo Draghi – una in particolare ci racconta meglio di qualsiasi saggio filosofico l’epoca in cui viviamo, al di là del caso in questione. Sorvolando sull’improbabile (se non demenziale) versione dei fatti fornita dai giornali di regime – i quali naturalmente si sono ben guardati dal pubblicare l’immagine summenzionata, limitandosi ad inquadrare la scena in maniera parziale e fuorviante – e tralasciando il collaudato modus operandi teso a delegittimare una manifestazione pacifica quello che colpisce è il fatto che basta un minimo scarto, un cambio impercettibile di prospettiva, una telecamera ruotata di pochi centimetri per trasformare la menzogna in verità, la finzione in realtà, le vittime in carnefici.

Il nostro, come ci insegnano Debord e Baudrillard, è l’impero della menzogna e del simulacro, della falsificazione integrale dell’esistente: la società dello spettacolo è una sorta di immenso buco nero che tutto ingoia, e dal quale nulla può riemergere indenne. Il nostro è il tempo della parodia e della contraffazione, e la prima vittima di questo processo di inversione è la realtà, la quale nella narrazione mediatica – quest’arma micidiale di cui dispone il potere, che gli consente di perpetuare il suo dominio e i suoi abusi – scompare o viene sistematicamente alterata.
Per questo ogni corteo, ogni manifestazione, per quanto sacrosanta e legittima, fallisce in partenza: basta una telecamera impugnata da un galoppino del pensiero unico, l’articolo del mercenario di turno, il post di un influencer al servizio del Ministero della Verità, per trasformare gli oppressi in oppressori. Alla luce di ciò ogni protesta di piazza non solo rischia di essere inutile, ma addirittura controproducente, e non fa che agevolare la strategia del nemico e dei suoi organi di propaganda. Forse abbiamo un solo modo per evadere da questa cappa asfissiante con cui il potere ha nascosto la realtà: smettere di guardare questa immane fantasmagoria, smettere di nutrire con i nostri sguardi questa tenebra che tutto imprigiona, perché onnipresente e immateriale.
Questo buco nero cresce perché noi lo guardiamo, è un’oscurità che noi stessi illuminiamo, e con questi occhi artificiali ci dà la caccia. E riesce a braccarci proprio perché ci lasciamo cogliere nel suo campo visivo, ci contrapponiamo ad esso nel perimetro del suo potere, attenendoci alle sue stesse regole, sia pur da oppositori. Esso ci può vedere perché noi lo guardiamo, ci può parlare perché noi ne parliamo, ci può ascoltare perché noi lo ascoltiamo: senza la nostra presenza il suo potere è nullo, non può esistere senza di noi, noi siamo il combustibile che alimenta il suo fuoco, siamo il suo cibo.

Se per una settimana nessuno accendesse la televisione e il computer, questi specchi deformanti, questo castello spettrale si scioglierebbe come neve al sole, rivelando di colpo la sua natura fantasmatica e illusoria: il regime prospera non solo grazie ai suoi sostenitori, ma soprattutto attraverso i suoi oppositori. Per la narrazione dominante noi non esistiamo, o siamo trattati alla stregua di pazzi criminali?
Ebbene da oggi essa non esiste per noi, i suoi miraggi non ci irretiscono più, qualsiasi minaccia ci lascia indifferenti. Andassero fino in fondo, facessero quel che vogliono, finché gli sarà concesso: è il loro tempo questo, è necessario che le cose vadano così, in fondo tutto quello che accade ha un significato, sebbene spesso ci sfugga o risulti opaco. Noi naturalmente faremo la nostra parte, ma smettiamola di considerare assoluto il contingente, irrevocabile il transitorio: per vedere bisogna chiudere gli occhi, oggi più che mai, visto che la menzogna è talmente estesa da coprire l’intero orizzonte del visibile. Altrimenti continueremo a guardare senza poter vedere, se non le menzogne di questa Medusa che impietrisce.
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