‘Il Cattivo Poeta’ non è un film ‘cattivo’. Ma un po’ ‘fazioso’, sì.

da Roberto Asse

Dopo una prima uscita prevista a inizio 2020 e un frettoloso rinvio dovuto alla pandemia, è finalmente arrivato sugli schermi ‘Il Cattivo Poeta’, opera cinematografica dedicata al ‘Vate’ Gabriele D’Annunzio. Nonostante il primo rinvio e le difficoltà oggettive nella frequentazione dei cinema, il film sta registrando incassi interessanti, soprattutto se considerati dopo il lungo stop causato dalla chiusura delle sale cinematografiche.

Anzitutto perché ‘cattivo poeta’? Il titolo deriva da una citazione dannunziana dal duplice significato: sia per definire la duplice condizione di ‘cattività’ vissuta dal Vate ovvero come prigioniero del suo mito (ormai decadente), ma anche come prigioniero fisico, rinchiuso nella sua dimora-museo sul Garda, il Vittoriale. In nuce si coglie che questa duplice cattività ha un medesimo responsabile: il ‘cattivo allievo’ Mussolini, che ha dapprima messo in ombra il mito dannunziano sovrastandolo e successivamente ha costretto il Vate alla cattività fisica nella sua prigione dorata.

Spiato e contemporaneamente avvolto da un muro di gomma, il film si snoda entro una dialettica a due D’Annunzio-Mussolini, dove però lo spettatore vive la vicenda per il tramite di un terzo protagonista, il giovanissimo Federale Giovanni Comini, inviato dal ‘mastino’ del Duce, Achille Starace, a monitorare l’operato del personale già inviato a controllare il Vate. Ma Comini non sa di essere, a sua volta, controllato proprio dallo stesso personale, che poi lo incastrerà in un gioco di spionaggio e controspionaggio retrò.

Così, il risultato dell’opera è qualcosa di simile a una spy story dal sapore politico e romantico allo stesso tempo, visto che la tesi finale che emerge è che la morte per emorragia celebrale di D’Annunzio sia stata sapientemente indotta da agenti italo-tedeschi per conto di Roma (e Berlino?). Ufficialmente la tesi è indimostrabile, ma attraverso una acuta e non affatto artefatta ricostruzione, supportata da fonti, diari, riscontri, il quadro che emerge è quella di uno scenario molto verosimile e logico: nonostante acciacchi e isolamento, sconforto e orgoglio, D’Annunzio aveva ancora il suo peso sul consenso in Italia e in Europa, così che il suo dissenso dalle politiche del Duce poteva, se manifestato e diffuso, rappresentare non tanto un pericolo, quanto un fastidio nel plebiscito del Paese.

Il film scorre così senza pause o tentennamenti inutili, andando dritto al sodo, sapendo coinvolgere lo spettatore nelle vicende a cavallo degli anni 1936-38, in un’Italia che giunta alla sua massima potenza e ammirazione dopo la fondazione dell’Impero, decide di unire le sue sorti con la Germania hitleriana, da cui lo scoramento e la rabbia del Vate contro l’odiata alleanza italo-tedesca. Di notevole spessore l’ottima interpretazione di Sergio Castellitto, che si riconferma uno dei più camaleontici e versatili attori italiani e, così come emozionante è la meravigliosa cornice del Vittoriale, che sbarca per la prima volta sul grande schermo in tutta la sua, troppo poco nota, bellezza.

Forse gli unici veri inciampi della pellicola sono proprio nello sforzo – molto serio – che è stato fatto per scenografare e ambientare una tale storia, che potrebbe tranquillamente restare relegata alle cronache dei tanti indimostrati ‘omicidi’ a scopo politico della storia moderna, senza cercare – come purtroppo fa – di strafare, cadendo su luoghi comuni. Questi inciampi, ahinoi, sono piuttosto grossolani e, a tratti, un poco grotteschi, nel tentativo di compiacere un certo pubblico e rincuorare gli addetti ai lavori della ‘cultura-che-è-solo-di-sinistra’ sul fatto che D’Annunzio fosse, in fondo in fondo, un antifascista di provata fede o almeno un paladino della libertà di pensiero. Si pensi alle buffe rappresentazioni di un certo squadrismo, con tanto di militi meridionali (ma perché meridionali a Brescia?) intenti a fumare e giocare a carte finché il Federale non intima loro di andare a fare piazza pulita, con le annesse violenze in stile Guantanamo. Così come il Duce rappresentato come un galletto tronfio, che ci ricorda una pellicola alla Carlo Lizzani, per non parlare dell’esperienza fiumana che viene evocata solo nella sua espressione ‘libertaria’ e anarchica, omettendo l’eroismo e l’impeto ardito e menefreghista che la animò (e che fu poi fucina dello squadrismo e del Fascismo stesso), o di qualunque riferimento da parte di D’Annunzio alla ‘vittoria mutilata’ (della Prima Guerra non v’è realmente traccia se non nei ‘souvenir’ del Vittoriale o nel vestiario del Vate). Inoltre, in tutto il film l’adesione dell’Italia al regime sembra in crisi e vacillante, mentre proprio nel 1936 il Fascismo conobbe il suo massimo storico in fatto di consensi con tanto di manifesti degli esuli antifascisti che si congratulavano col regime per i traguardi raggiunti. Infine, anche le vicende familiari dei protagonisti, di fantasia, che vengono raccontate per diluire la ricostruzione storica delle vicende dannunziane, hanno il sapore del grottesco, restituendo l’immagine di una dittatura in salsa sudamericana con tanto di desaparecidos o delazioni intra-familiari che poco si confanno allo stile dell’italiano di ieri e di oggi, ma soprattutto allo stile del regime mussoliniano che, esaurita la stagione squadrista, si limitò molto spesso alla prassi del confino (a differenza di altri regimi coevi).

Insomma, bene lo sforzo nella sceneggiatura, nella scenografia, nella fotografia, nei dialoghi e nei costumi, così come nella denuncia di un certo fascismo di facciata, sterile, ruffiano e conformista. Peccato però aver indugiato così tanto su questi aspetti: forse per la necessità di mettere in luce, per differenza, la capacità ‘profetica’ di D’Annunzio nel denunciare in tempo non sospetti l’alleanza con Hitler? In ogni caso, buona visione.

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