“Se tutto questo è il bene allora sì che siamo il male!”. Intervista a Flavio Ferraro

da Flavio Ferraro

Tutte le parole d’ordine del mondo contemporaneo, tra cui il sempre invocato “progresso”, sono circondate da un’aura di indiscutibilità. Flavio, come esponi nel tuo libro, gli organi di informazione, quelli che plasmano l’opinione collettiva, raccontano di una parte giusta della storia, con le sue battaglie di ‘civiltà’ – aborto, ideologia gender, immigrazione – opporsi alla quale espone allo stigma di reazionari e razzisti. Ma chi sono veramente i buoni e i cattivi oggi?

Non è difficile rispondere a questa domanda, purché si tenga a mente che in un mondo come il nostro – dove tutto viene rovesciato ed invertito – si definisce “bene” ciò che in realtà rappresenta la negazione stessa di quei princìpi e quei valori su cui tutte le civiltà tradizionali si sono fondate. Si pensi a parole come “liberalismo”, “società aperta”, “flessibilità”, “sostenibilità”, “accoglienza”, “svolta green”: tutti termini dal significato apparentemente positivo, ma che in realtà servono a dissimulare tutti gli orrori e le ingiustizie dell’ultima fase del capitalismo.

Vorrei fare un esempio: recentemente sul quotidiano La Repubblica abbiamo scoperto che la forma più estrema di mercificazione del corpo femminile, ovvero l’utero in affitto, si è magicamente trasformata in “gravidanza solidale”. Solidale verso chi? Verso il bambino che non conoscerà mai la sua madre biologica, con tutte le conseguenze fisiche (si pensi all’importanza fondamentale del latte materno per la salute del neonato) e psicologiche che questo comporterà? Verso la donna costretta dalla povertà a noleggiare il suo corpo, ridotto a macchina incubatrice per soddisfare i capricci di qualche coppia infertile? Per non parlare dei notevoli rischi e dei danni per la salute delle madri portatrici o delle donatrici di ovuli, come ad esempio la sindrome da iperstimolazione ovarica, le cui forme possono essere anche mortali. E non ci sembra inutile ricordare che la danarosa coppia in questione (gay o etero che sia), rappresentando l’acquirente può imporre una dieta specifica alla madre portatrice, scegliere il tipo di parto o eventuali aborti selettivi e, dulcis in fundo, restituire la “merce”, ovvero il bambino, qualora non risulti di suo gradimento. Ecco, pur non amando le semplificazioni e le visioni manichee, io direi che i cattivi sono coloro che chiamano “solidale” questo abominio, e buoni quanti stanno tentando di opporsi a simili orrori e che si ostinano, nonostante tutto, a chiamare le cose con il loro vero nome.

L’arma di cui si serve la Sovversione per far passare le sue battaglie è spesso quella del sentimentalismo. Lo fa, ad esempio, nel dibattito sui matrimoni omosessuali, puntando a commuovere sottolineando l’“amore” tra i poveri aspiranti coniugi perseguitati. Per scardinare questa dialettica, non pensi che servirebbe rispolverare il concetto di Giustizia, più che il sentimentale “bene”?

“La malvagità del bene. Il progressismo e la parodia della Tradizione” (Flavio Ferraro, Irfan 2019)

Il fatto che il concetto di “bene” sia stato svuotato di senso, o che venga utilizzato per indicare il suo opposto, non significa che non lo si debba adoperare, al contrario. Tra l’altro nelle dottrine tradizionali il bene è sempre stato associato ai concetti di giustizia, verità, ordine, armonia, nel senso pieno ed eminente di questi termini. In Platone bene e giustizia sono concetti inseparabili: nel dialogo La Repubblica Socrate afferma che la giustizia consiste “nel fare le proprie cose” (433 b), e dunque “nel fatto che ogni singolo individuo svolga il compito che gli è proprio senza moltiplicare le proprie attività” (433 d). Nella Bhagavad-gītā tutto ciò è riassunto dal termine svadharma, inteso come norma personale, stabilita o fissata dalla propria natura: “Compiendo l’opera prescritta dalla propria natura non si cade in errore alcuno” (XVIII, 47). Questo “assolvere il proprio dovere” in Platone corrisponde anche alla saggezza. Queste non sono considerazioni peregrine: non a caso oggi si parla in maniera ossessiva di diritti, mai di doveri. La società odierna non può essere giusta, né tantomeno esortare al bene e alla verità, perché è l’unica che si fonda sul disordine, sul brutto e sull’informe, e impedisce agli individui di realizzare la propria natura, di vivere in armonia con essa, condannandoli perciò all’infelicità.

Molti hanno criticato il fenomeno del gender, senza andare oltre, però, la difesa del dimorfismo sessuale su un piano biologico, non scorgendo il più profondo attacco al maschile e femminile come polarità, espressione dello Spirito.

Esattamente. Uno degli scopi dell’ideologia gender è proprio quello di annullare quella polarità fondamentale rappresentata dal principio maschile e da quello femminile, e in essa possiamo scorgere una parodia del simbolo tradizionale dell’androgino, come spiego nel mio saggio e in alcuni miei articoli. Ora, ogni creazione – sia a livello metafisico che biologico – presuppone una distinzione o differenziazione dei suddetti princìpi, senza i quali nulla potrebbe venire all’esistenza; il maschile e il femminile simboleggiano infatti quello che il Vedānta definisce Purusha e Prakriti. Questi due princìpi, opposti e al tempo stesso complementari, entrando in correlazione tra loro producono lo sviluppo della manifestazione nella totalità indefinita dei suoi stati: ciò significa che loro correlazione è necessaria affinché la vita – a qualunque grado dell’esistenza appartenga, sia esso individuale o sovraindividuale – si manifesti. Pertanto quello che i teorici del gender vorrebbero imporre all’umanità nelle loro fantasie di indistinzione sessuale – in quanto la differenza sessuale sarebbe causa di oppressione e discriminazione − è metafisicamente impossibile, prima ancora che sterile biologicamente: dall’identico, dall’uguale (dal greco όμός) non può nascere nulla. Il sogno in cui si cullano i teorici del gender non può che essere un sogno di morte.

Altra parola d’ordine alla base della distruzione dell’uomo è la libertà. Ma l’uomo del 2021, stimolato da continui bisogni indotti e inserito negli ingranaggi di meccanismi sociali che nemmeno vede, può dirsi davvero libero?

Nella misura in cui è schiavo dell’immaginario e dei modelli di comportamento fabbricati dagli organi di propaganda, a cui passivamente si conforma, sicuramente no. Ma anche qui occorre fare una distinzione: per i moderni la libertà consiste nell’appagamento dei desideri individuali, mentre per tutte le tradizioni spirituali è veramente libero solo colui che è in grado di controllare questi desideri. Nel primo caso si parla di libertà dell’io, nel secondo di libertà dall’io. I desideri o appetiti naturali non sono nocivi in sé, ma ridurre l’intera esistenza al soddisfacimento di essi, trascurando la dimensione spirituale della nostra natura, è esattamente il contrario della libertà, almeno da un punto di vista tradizionale. E in ogni caso si può essere liberi solo se si agisce in conformità con la propria natura, ma ciò è impossibile se il nostro pensiero e le nostre azioni sono eterodiretti. L’astuzia (davvero diabolica) degli agenti della manipolazione mentale è stata quella di convincere l’individuo che la sua libertà è tanto maggiore quanto più egli agisce come tutti gli altri. Purtroppo la stragrande maggioranza delle persone ignora il carattere illusorio di quello che ingenuamente chiama “io” o “mio”, e una delle tragedie del nostro tempo è proprio il fatto che gli uomini non sono coscienti dei condizionamenti che la loro mente subisce ad opera del potere. Senza questa consapevolezza, nessun risveglio spirituale sarà mai possibile nell’uomo comune.

In definitiva, solo la Visione Spirituale può tenerci al riparo da questi attacchi. È ancora sufficiente ‘conservare’ un mondo che crolla, oppure occorre riscoprire ciò che non muore mai, perché universale ed eterno?

Direi la seconda opzione, sebbene sia la più ardua da realizzare, perlomeno nelle condizioni in cui versa l’umanità attuale. Le forze della sovversione – grazie alla diffusione di quelle ideologie materialiste e nichiliste che conosciamo bene – sono riuscite ad inculcare nella mente della larghissima maggioranza degli uomini l’idea che la vita finisca con la morte corporea, e al contempo a convincere le masse che il relativo, il contingente (sia esso l’euro, una determinata ideologia o un modello economico), sia assoluto ed irrevocabile. In realtà tutto ciò che è sotto al sole è cibo per la morte, come direbbero gli indù, perciò anche questa notte che sembra infinita avrà un termine. Ma se da credenti sappiamo che l’alba giungerà, è pur vero che non ci possiamo limitare ad una semplice attesa passiva: bisogna essere le sentinelle di quest’aurora, e coltivare o riscoprire quella Luce o Spirito presente in ognuno di noi, quella scintilla divina che nessun potere terreno, per quanto grande, è in grado di spegnere. “Sosteniamoci alla roccia della divinità, mentre il fango di questo secolo frana giù a valle”, diceva Gómez Dávila. Ecco, direi che questo è un monito che dovremmo sempre tenere a mente, se vogliamo continuare a definirci umani.

Ti potrebbe piacere anche

2 commenti

giuseppe 24 Luglio 2021 - 10:17

C’è un affermazione errata nel testo, relativa al Vedanta. Purusha e Prakriti non sono i riferimenti di maschile e femminile, bensì, di spirito e materia. Senza la componente spirito, la materia resta in una condizione “non manifesta”. Il nostro corpo è vivo, manifesto, proprio perché è presente il Purusha, ossia la componente spirituale. Al momento della morte, questa esce in attesa, a seconda di vari parametri, di essere destinata ad un altro corpo, o nei caso di liberazione in vita, a vivere in altre dimensioni, non più materiali.

Rispondi
Flavio Ferraro 25 Luglio 2021 - 12:27

Gentile Giuseppe, non ritengo sia un’affermazione errata, dal momento che Purusha, essendo il principio attivo, luminoso e spirituale, è anche maschile, mentre Prakriti, ovvero il supporto passivo della manifestazione, non può che rappresentare il principio femminile ed oscuro. Del resto basta leggere un testo fondamentale di Guénon, “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta”, che spiega il simbolismo in questione con tutte le precisazioni del caso (simbolismo che ritroviamo identico anche nella tradizione taoista e in quella islamica, rispettivamente nel simbolo dello yin e dello yang, e in quello del Calamo e della Tavola custodita). Un caro saluto, Flavio Ferraro.

Rispondi

Lascia un Commento